Negli ultimi tempi sentivo una sorta di blocco. Non parlo di quello del lettore, diciamo che c’era una sorta di occlusione emozionale. La mia cura è stata Zoo di Isabella Santacroce.
“Nella penombra di quelle stanze, la pioggia continua a lacrimare sui vetri delle nostre finestre, disegnando sbarre d’acqua che ci dividono dal mondo. In quell’istante, vedo l’amore di mio padre trasformarsi in una gabbia, che nessuno può raggiungere. E ancora rivedo il luogo in cui ho vissuto, uno zoo silenzioso, semideserto.
Solo mia madre veniva a farci visita, entrava ogni volta che finiva la sua vita, quando aveva già dato il meglio di sé nel suo negozio di stracci che lei definiva d’alta moda. Era quel tipo di visitatore che molesta le bestie con il suo manico dell’ombrello, che le deride, che non le rispetta.”
Questo è l’incipit, che in due paragrafi catapulta il lettore nella storia senza alcuno sconto. La famiglia, il luogo in cui formiamo la base della nostra educazione sentimentale, viene analizzata al microscopio e ne esce un ritratto doloroso ed estremo. Il nido familiare rimane tale, ma è fuori dalla natura. Come gli animali, che allo zoo lentamente muoiono, le persone subiscono la stessa sorte.
Nel romanzo vediamo una famiglia disfunzionale dagli occhi di una figlia che, suo malgrado, a lungo spera in un cambiamento. Purtroppo, la vita (e in questo caso l’arte) non cambia sempre in meglio. Il padre è succube della moglie; ogni sua tendenza alla felicità, peraltro già flebile, si incrina al passaggio della donna che non vorrebbe comprimari nella propria vita. La madre della protagonista ha la sua attività dove vorrebbe spadroneggiare – vuole farlo in ogni campo – e torna a casa con la consapevolezza di essere il centro del mondo da lei conosciuto.
“Noi eravamo succubi dei suoi stati d’animo, avevano il potere di esaltarci o sopprimerci. Contro di lei non potevamo niente, solo rifugiarci in noi stessi. Io e mio padre ci proteggevamo a vicenda vivendo in una trappola in cui lei ci aveva costretto. Lo zoo è stato costruito in suo onore, come monumento alla sua violenza.”
È così che la protagonista di questo lungo monologo si innamora del padre, più di quanto solitamente accada nel rapporto tra figlie e papà. L’unica persona in casa ad esser capace di portare quel po’ d’amore necessario a trovare la forza di proseguire in una valle di lacrime. Quella bontà, evoluta poi in timida rassegnazione, sarà vista col tempo in modo negativo. Combattere contro il mostro sperando di domarlo? O abbassare la testa e cercare la semplice sopravvivenza? Ahimè, il testo non conosce speranze.
Molti lettori sono contro gli spoiler. Accade principalmente a chi fruisce di libri che abbisognano del colpo di scena per mantenere punti di interesse. Per fortuna i testi di Isabella Santacroce – che comunque hanno plot twist notevoli – possono contare su una scrittura estremamente pregevole. E diversi classici che ho letto non arrivano al livello di prosa (e poesia insita) di romanzi come Zoo. Se non volete però “rovinarvi” la lettura, fermatevi qui.
A un quarto del testo viene a mancare l’unico appoggio della protagonista. La guerra diventa più accesa. L’obiettivo è far provare alla madre un rimorso di coscienza, un fremito, un sentimento. Anche l’odio è un sentimento, e verrà esplorato in lungo e in largo. Specialmente quando diventerà impossibile scappare dalle spesse sbarre dello zoo. Soprattutto quando la madre comprenderà quanto sia difficile vivere in cattività. La sete di vendetta, però, impedirà i tanti tentativi di fuga.
Ne scrivo, ne parlo, e ho di nuovo i brividi.