Uvaspina – Monica Acito : recensione

Quando ho cominciato a leggere Uvaspina di Monica Acito, ho cominciato al contrario, dalle note dell’autrice, a fine libro, per poi ritornare al principio, alla prima pagina.

E non posso che essere d’accordo, a Napoli la cronologia non esiste. Il tempo si raggruppa in un punto e va avanti veloce un momento dopo. I giorni possono essere tutti diversi e tutti uguali, proprio come la città fisica, che ti divora, ti disorienta con strade, fessure e case che spuntano ad ogni dove e tu, turista, ti chiedi come fanno quelli che ci si sanno ritrovare.

Io amo le storie ambientate a Napoli, chissà perché c’è sempre amore e sangue in quelle pagine, come se una gioia perfetta a Napoli non potesse esistere.

Non doveva essere Venezia la città degli innamorati? Eppure io ho letto molte più storie d’amore ambientate a Napoli. Forse quest’ultima è la città degli amori scontenti? Degli amori che finiscono? Che ti raccontano anche quello che c’è dopo il vissero felici e contenti.

Me lo ha insegnato bene De Giovanni, che a Napoli le passioni portano al sangue, forse perché la città è femmina e alle femmine il sangue non spaventa.

Uvaspina è una storia complicata, che ci porta un po’ in giro, e gira, gira come uno strummolo, qualche volta piano e qualche volta più veloce, fino a farti vomitare, e tu esci pazzo, appresso a Minuccia e Uvaspina.

La cosa che mi piace di più di questo libro è la scrittura di Monica Acito, dritta, tagliente, cruda, anche cattiva, nella sua commistione di italiano e dialetto. Una ferita per tutti quelli che credono che le donne possano scrivere solo un modo e solo d’amore.

Una scrittura che mi ha portato a chiedermi: perché le cose più brutte, le cose più cattive, le tiriamo fuori sempre in dialetto? Quasi una chiave primitiva per la serratura della nostra rabbia, della parte più buia dove si annida il rancore e dove l’italiano non arriva. È un rancore primordiale che può essere raggiunto solo da un linguaggio primordiale.

Il dialetto è una lingua che fa male?

Per quanto riguarda il napoletano, ci hanno sempre un po’ intortato col fatto che no, non lo è, che è una lingua musicale con la quale puoi dire un sacco di parole d’amore. E invece in Uvaspina il dialetto fa male, serve per insultare, sputare, inzaccherare l’interlocutore il più possibile, in un modo in cui con l’italiano non riusciresti a sporcarlo, a ferirlo, come se attraverso di te usassi tutta la rabbia e la cattiveria di chi quel determinato termine lo ha usato prima.

Forse per Uvaspina quel termine è ricchione o femminiello, forse, all’inizio, ma forse no. Forse il termine che più lo ferisce è lo strummolo, che gira e gira, proprio come i pensieri inafferrabili e taglienti della sorella.

A Napoli c’è sempre la fame, sia quella reale, per le strade, i vicoli, i bassi, sia quella dell’anima, di emozioni, di presenze, di amore spirituale e carnale, e quella arriva ovunque, fin dentro le case più ricche dei signori.

E Uvaspina è una storia di fame o forse di sete, voglia di spremere fino all’ultima goccia, di trovare rifugio nell’acqua dolce o in quella salata.

Uvaspina e Minuccia sono fratelli, nati dall’unione della Napoli borghese con la Napoli forcellara, come sempre buio e luce, sacro e profano, tra gli incensi delle chiese e i sacramenti, dal battesimo fino al funerale, e i bassi, con i loro riti segreti, le benedizioni e le maledizioni lanciate sopra i pentoloni che ribollono.

E Uvaspina e Minuccia sono così, pieni di ombre, incomprensibili per chi non è vissuto con loro tra le mura di via Chiaia. Per chi non ha visto Graziella la Spaiata morire e resuscitare tutti i mercoledì sera, solo per gli occhi di un marito assente.

Due fratelli abituati a nascondere i bisogni sotto al tappeto, tanto di polvere non ce ne stava.

Tanto arrendevole l’uno quanto più forte si incaponiva l’altra. Perché lo strummolo è una trottola, un giocattolo per bambini con la punta acuminata, e nelle mani di Minuccia può fare davvero male.

Minuccia che, man mano che cresce, fa il bello e il cattivo tempo, su di lei si allungano le ombre di una città oscura, violenta e capricciosa. Lei con le sue vendette da fattucchiera e l’umore volubile di chi ha sempre e solo desiderato ardentemente nella vita. Lei che si prende lo spazio pure nel libro che porta il nome del fratello.

I protagonisti, uniti da amore e odio, da desideri comuni, guardando sempre con invidia ciò che la vita dona e nega all’altro e che per un crudele gioco del destino saranno uniti per sempre, anche fuori dalle mura domestiche cercheranno l’amore nelle stesse persone.

Ma alla fine chi sono i cattivi e chi i buoni? Uvaspina che si fa spremere da tutti, come il frutto di cui prende il nome, Minuccia, a cui avrei voluto dare tutte le mazzate che la madre non sapeva darle (per evitare l’arresto aggiungerò che sto parlando di una Minuccia adulta)?

O forse gli uomini? Tutti questi uomini che circondano le loro vite, da un punto di vista superficiale, tanto amati e mai veramente coinvolti, giochi tra le loro mani, come la trottola tra fratello e sorella, eppure nessuno in grado di dimostrare di più, di più di un semplice interesse, di più persino dell’amore, tutti pronti a lavarsi le mani, a trovare un modo per acconciare le cose, che quello che succede in famiglia nessuno deve saperlo.

Uvaspina è un libro triste, che ti fa abboccare, e tu stai lì che aspetti il bello, lo sbocciare, e invece l’amore è centellinato, solo attimi, sottratti alla crudeltà della vita. Attimi che paghi cari. Eppure è un libro che porta il fuoco e un po’ te lo mette dentro, piano, piano, non te ne accorgi, ma ti prende una frenesia, di fare, di dare un nome alle cose che senti, neanche tu (lettore) ci puoi stare con il culo per terra, devi girare, insieme allo strummolo che siamo tutti un po’ vittime di antichi rituali, e ci dobbiamo sottostare.

Oriana D'Apote

Oriana D'Apote classe ’93 un pendolo che oscilla tra la Puglia e l’Abruzzo. La mia prima natura è quella di ascoltatrice di storie, con l'animo inquieto sempre alla ricerca di qualcosa, il dettaglio, la poesia. Sogno di acquistare centinaia di fiabe illustrate, leggo storie crude. Vivo come il protagonista di un noir a colori dove alla fine prenderò il cattivo, risolverò il caso.

Lascia un commento