Un Chien Andalou – Andrea Cavaletto : recensione

Tra i film più iconici della storia del cinema c’è Un chien andalou, e col senno di poi sembra anche normale. Cosa può succedere se uniamo due geni come Luis Buñuel e Salvador Dalì e forniamo loro la possibilità di girare su pellicola? Beh, i soldi li ha messi la madre del regista aragonese, e sono finiti relativamente presto. Per questo motivo Buñuel imparò subito l’arte del montatore: non potevano pagarne uno di professione.

Come nasce un cortometraggio di tale importanza? Leggenda vuole che i due artisti stessero parlando di sogni e incubi, e tra questi c’erano la scena dell’occhio e quella delle formiche che escono dalla mano. Con le due sequenze più importanti, il lavoro è tutto in discesa.

Tutte le porzioni del film seguono strutture oniriche, compresi i vari significati psicanalitici (del resto gli autori erano altamente interessati al tema). Ossessioni, rimandi sessuali, tensioni interne sono elementi fondanti, e inquadratura dopo inquadratura siamo travolti da quadri mentali complessi eppure così immediati – i simboli sono da specialisti, ma tutti facciamo sogni con significati difficili da decifrare.

In realtà Buñuel negò sempre i simbolismi e i collegamenti con Sigmund Freud e le sue teorie. L’accordo con Dalì prevedeva che la logica e la ragione non dovessero assolutamente entrare nelle riprese. Nonostante manchi una vera e propria trama, il montaggio sia mal comprensibile sul piano temporale e siano assenti le poche certezze delle narrazioni tradizionali, Un chien andalou influenzò e influenza tuttora il cinema mondiale.

La forza del cortometraggio (da qualche parte ho letto “mediometraggio”, ma mi sembra esagerato per un abbondante quarto d’ora) è nelle immagini, nella costruzione delle singole inquadrature; pur se slegate, rimangono stampate nella mente, indelebili nella memoria collettiva.

Anche Andrea Cavaletto è una vittima delle capacità di Buñuel e Dalì, al punto che ne è nata un’opera grafica che riproduce le sequenze della pellicola in una tecnica particolare e, come dice l’autore nell’introduzione, inventata da lui; tanto carboncino, solventi e fotocomposizione diventano la nuova base visiva per l’omonimo fumetto.

La trasposizione è a colori, a differenza dell’originale, ma anche la colorazione sembra un omaggio: avete presente i primi corti colorati di Georges Melies? Si dipingeva sulla pellicola per avere effetti particolari e talvolta stranianti. All’interno della graphic novel aiuta a entrare nella dimensione onirica, nelle immagini depositate durante la veglia e poi rielaborate in modo creativo – e non lineare.

Le sequenze sono tutte, ma purtroppo mettere tutte le singole inquadrature sarebbe stato superfluo e, soprattutto, avrebbe appesantito le varie pagine. Tra i tanti meriti di Andrea Cavaletto c’è la capacità del rendere fruibile il fumetto al pari del corto. Addirittura, nel corso della lettura, la memoria uditiva ha riesumato la colonna sonora aggiunta poi dallo stesso regista nel 1960 (la musica è quella della prima proiezione), che è poi ciò che la mia mente immagina ogni volta che sente la parola “tango”.

È difficile essere così evocativi, eppure dopo quasi un secolo i nostri occhi rimangono ancorati allo schermo come sulle pagine, a seconda della versione che stiamo guardando.

Indipendente come Werner Herzog ma meno comprensibile; surreale come Lynch ma l’accostamento si fermerebbe a Eraserhead; in ogni caso è all’origine del body horror. Ed è anche, a pari merito con Nosferatu, il mio film muto preferito.

Il film lo trovate QUI, ma sappiate che il regista affermava: “Chi trova questo film bello o poetico non può che essere un imbecille”. Beh, sicuramente non sarò solo.

Aniello Di Maio

Aniello di Maio è nato l’ultima volta a Castellammare di Stabia (NA), ma si definisce pescarese per evitare lo spirito di competizione. Allevato da un diplomatico presso l’ambasciata spagnola, ha acquistato un veloce eloquio, così veloce che è meglio leggerlo che ascoltarlo. Ha amato così tanto studiare Lettere moderne che ha trascorso almeno il doppio degli anni fuori corso, un po’per l’ansia dilagante, un po’perché non riesce ad essere serio a lungo. Neanche in quattro righe di biografia.

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