Ho letto Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli perché ai miei studenti è piaciuta la serie tv Netflix, come sempre in questi casi ho colto la palla al balzo per spedirli a leggersi il romanzo e quindi, nella miracolosa circostanza in cui mi avessero dato effettivamente retta, non volevo farmi cogliere impreparata. Sapevo solo che parlava di TSO e ospedali psichiatrici, e ho immaginato la classica vicenda alla Qualcuno volò sul nido del cuculo, con il protagonista ribelle che inizialmente si rifiuta di provare ad ambientarsi ma poi, nel gruppo di matti tutti diversi ma ugualmente profondi e poetici, trova la sua prima vera famiglia. Magari il tutto condito con una certa retorica alla Alda Merini, quell’esaltazione della follia come condizione naturale dell’essere umano e come espressione di autenticità e libertà.
Naturalmente sì, Tutto chiede salvezza è anche questo. C’è il protagonista ribelle (Daniele Mencarelli stesso, che nel 1994 ha effettivamente subito un TSO), il gruppetto di matti intelligenti e sensibili, gli psichiatri che non ascoltano e quando ascoltano non capiscono, gli infermieri resi cinici dal mestiere. Nonostante questo, a Mencarelli riesce di non suonare artificioso, l’esaltazione del mondo dei matti c’è ma non è mai stucchevole o manieristica e soprattutto la storia di Daniele, costretto a passare una settimana in un reparto psichiatrico perché si droga parecchio, ha incontrollabili crisi di rabbia distruttive e autodistruttive e il resto del tempo è estremamente felice o insopprimibilmente infelice, arriva a emozionare e spingere all’identificazione, pur senza prendersi mai troppo sul serio.
Mencarelli infatti non cerca soluzioni, non porta l’arco narrativo del Daniele ventenne a nessuna vera svolta, e in effetti non si può dire che in Tutto chiede salvezza succeda granché, a parte un paio di colpi di scena sul finale che non cambiano poi molto la sostanza della vicenda. Se sembra citare Basaglia è solo per raccontare un mondo e sé stesso, senza mai essere predicatorio. Ci sono persino dei riferimenti religiosi a una ricerca di senso e di scopo più grande della vita quotidiana (l’autore ha persino pubblicato un’antologia di poesia religiosa) che non sono risultati grotteschi o fuori luogo/innaturali neppure a me, che quando sento parlare di spiritualità roteo gli occhi a velocità sostenuta.
Daniele, tra l’altro, se è ribelle e rabbioso, lo è in modo atipico, ed esula dal classico stereotipo del bad guy. Ha una famiglia che adora e che lo adora, una sensibilità morbosa, un senso di empatia e profonda connessione con il tutto che gli rende impossibile affrontare il mondo senza ferirsi continuamente. Gli sembra di ricominciare sempre dall’inizio, come se ogni notte la sua mente si rinnovasse e lo lasciasse come appena nato, scoperto e sprovveduto, nel bene e nel male.
Certo, da buon stereotipo di maschio bianco etero cisgender finge di essere perfetto con i suoi coetanei, annulla le proprie emozioni con le sostanze e (scopriamo in uno dei passaggi più belli) da adolescente ha preso in giro una ragazza, ferendola in modo irreparabile senza accorgersene. Ma non mente alla sua famiglia né a sé stesso, scrive poesie, sa amare senza riserve e scavarsi nel profondo e questo è un elemento di originalità, perché forse mi avrebbe annoiato ritrovarmi tra le mani l’ennesimo romanzo di formazione in cui il protagonista maschio deve imparare da zero che anche lui, in fondo in fondo, ha un cuore.
Tutto chiede salvezza sa dare tridimensionalità anche i comprimari, dei tipi umani piuttosto convenzionali ma anche profondamente veri (non è dato sapere se davvero conosciuti da Mencarelli nel suo ricovero psichiatrico o frutto della sua fantasia). Lascio al lettore il piacere di conoscerli, ma ho voglia di dire due parole su Gianluca, transessuale prima che di disforia di genere si parlasse con cognizione di causa (come ho detto, il romanzo è ambientato nel 1994). Soffre di disturbo bipolare, ma la sua condizione di ragazza nel corpo di un uomo è confusa con la sua malattia, sovrapposta persino, come fosse parte del problema e con esso potesse essere estirpata.
È forse il personaggio più riuscito perché riusciamo a visualizzarlo nelle movenze aggraziate, negli atteggiamenti seduttivi e civettuoli, e suscita una profonda simpatia e compassione, anche se intuiamo la malattia mentale negli slanci eccessivamente entusiastici, senza sfumature (lui stesso dice di sé che quando è nella “parte bianca” pensa esclusivamente al sesso ed è perennemente esaltato, quando è nella “parte nera” pensa esclusivamente alla morte). È un’accortezza che Mencarelli ha sempre, non farci mai dimenticare che siamo di fronte a persone profondamente malate, per quanto possano piacerci e per quanto a tratti possano sembrarci più sane dei cosiddetti sani. Insomma, a un certo punto mi sono messa a piangere per Gianluca. Ma forse sono di parte, non mi sono mai ripresa da Ti regalerò una rosa di Simone Cristicchi.
Se amate le storie dei cosiddetti malati, dei “diversi”, che la società relega in un angolino come un brutto soprammobile che ci si sente troppo in colpa per buttare via, consiglio anche Le case dai tetti rossi di Alessandro Moscè, oltre all’un po’ dimenticato (ma ai tempi ne trassero anche un film gradevole) La pecora nera di Ascanio Celestini.