Penso che non esista romanzo con il finale più memorabile di Trionfo della morte di Gabriele d’Annunzio:
“E caddero nella morte avvinti”
La prima volta che mi sono imbattuta in questo libro sono rimasta un po’ interdetta; mi ero subita pagine e pagine di elucubrazioni del protagonista, per poi leggere cinque parole di numero in chiusa. In seguito ho letto anche altri romanzi di d’Annunzio e ho capito che amava intrecciare la storia in modo da farci perdere le coordinate per poi chiudere violentemente. Avete presente quei film in cui gli sceneggiatori mettono tanta carne al fuoco e poi risolvono tutto in mezz’ora scarsa? Mi è salito lo stesso nervoso.
A ben vedere, Trionfo della morte ha un ché di cinematografico sotto molti aspetti; la cosa più bella è che è stato scritto tra il 1889 e il 1894, prima dell’avvento del cinema. Su d’Annunzio e il cinema ci sarebbe molto da dire ma siamo qui per una travagliata storia di amore e morte immersi nell’Abruzzo arcaico.
Ho iniziato parlando del finale, quindi torno indietro all’esordio del romanzo.
Una coppia di amanti, Giorgio e Ippolita, stanno passeggiando sulla terrazza del Pincio a Roma quando scorgono una triste folla attorno ad un cadavere: un uomo si è lanciato giù. Direte, è un segno? Ovviamente! Ma i nostri amanti non lo sanno.
Giorgio Aurispa sente che la sua liason con Ippolita Sanzio (l’autore non ci rivela subito l’identità dei nostri protagonisti) sta volgendo al termine dopo due anni. Non sa se lei si sta trovando un altro amante oppure è lui stesso che non la ama più, decide di temporeggiare.
Intanto torna dalla famiglia nel suo paese natio, Guardiagrele, per risolvere delle questioni; lei lo raggiungerà dopo qualche giorno per passare del tempo assieme in qualche località isolata – arriveremo con calma al famoso eremo e all’ancora più famoso trabocco.
Nella lettera per Francesco Paolo Michetti, d’Annunzio scrive che il suo intento è quello di rappresentare una “dramatis persona […] con la sua personale visione dell’universo”. Infatti, sebbene la narrazione sia in terza persona, la mente di Giorgio è un libro aperto per noi. Ogni suo pensiero, idea o ripensamento è nero su bianco. Nelle ultime cento pagine tende addirittura a prevalere sulla trama tanto da tramortire il lettore e creare un senso di vera vertigine (Hitchcock non sarebbe stato da meno).
È proprio l’ambiente rurale abruzzese, ancora così arcaico rispetto alla civiltà romana, a far affiorare nel protagonista tutti quei crucci e elucubrazioni che porteranno al raptus finale. Gran parte della sua ossessione per la morte affiora quando rientra nelle stanze del suo zio prediletto morto suicida; da lì parte il tarlo che lo consumerà per quasi tutto il romanzo.
L’antico Abruzzo, quello di fine Ottocento, è rappresentato come un mondo ancora fatto di misticismo e a tratti pagano. Troviamo ancora i riti casalinghi contro le streghe, gli ex voto, le processioni e perfino la figura di un nuovo Messia (un certo Oreste di Cappelle).
D’Annunzio presenta al lettore lunghe pagine in cui descrive minuziosamente la sua terra natale immergendola in un’atmosfera davvero suggestiva.
Uno degli esempi più calzanti è la processione per la Madonna dei Miracoli di Casalbordino. Qui l’autore ricrea l’atmosfera del momento intercalando il canto religioso alla descrizione ripetitiva e ossessiva di chi accorre per chiedere la grazia.
Per rendere l’idea, ecco il quadro di F.P. Michetti di qualche anno più tardi, Gli storpi, che raffigura proprio la processione narrata nel romanzo.

C’è molto autobiografismo in Trionfo della morte, i problemi finanziari del padre, la sua predilezione per lo zio di cui sceglie di portare il cognome – effettivamente Rapagnetta è molto meno aulico –, il rapporto amoroso con Barbara Leoni (incluso il soggiorno all’eremo), sono tutti riportati nel romanzo e forse per questo la narrazione è così accorata e personale per quanto in terza persona.
Sempre nella lettera a Michetti, d’Annunzio esplicita la sua scelta di voler dare un tono lirico allo stile della narrazione. Questa scelta lo aiuta ad aumentare la suggestione del lettore grazie all’uso frequente dell’anafora a inizio paragrafo. La ripetizione della stessa espressione, infatti, accentua il carattere ossessivo delle descrizioni e dei pensieri del protagonista. Un altro esempio di un certo lirismo nello stile è quello della simbiosi uomo natura tipica di d’Annunzio.
Ci sono poi continui rimandi alla poetica ottocentesca, dall’eroica morte in mare di P.B. Shelley a Wagner. Ci sono lunghissime pagine in cui Giorgio ricorda la sua visione a Bayreuth di Tristano e Isotta in cui non può che rivedere la sua storia con Ippolita subito prima del finale del romanzo.
Trionfo della morte è come una spirale a salire: quando si è in cima, il lettore ha lo stesso brivido di Giorgio e Ippolita sullo strapiombo sul mare; a differenza loro, però, si salva in punta di piedi proprio davanti al punto fermo messo dall’autore.