Trattatello in laude di Dante – Giovanni Boccaccio

Il genere biografico è sempre stato molto prolifico e ben apprezzato – abbiamo, ad esempio, le Vite parallele di Plutarco e le Vite dei Cesari di Svetonio come capisaldi – e nella nostra rubrica dedicata a Un Dant’al chilo non poteva essere escluso il primo vero ritrattato dantesco ad opera di Giovanni Boccaccio, il Trattatello in laude di Dante.

Giovanni Boccaccio, essendo membro più giovane delle tre corone, molto amico di Petrarca e grande fan dell’Alighieri, studiò in maniera molto approfondita le opere dantesche; è anche grazie al suo ligio lavoro, se abbiamo i primi testimoni non autografi della Commedia; bisogna considerare sempre l’altro lato della medaglia: insomma, non era molto preciso e meticoloso ma un pochino maldestro. Arriveremo a tempo debito anche a questo.

Le fonti utilizzate per la stesura del Trattatello ricorrono a testi scritti come brevi ritratti danteschi (es. La nuova cronica di Giovanni Villani) e testimonianze orali che potevano essere più o meno attendibili: un esempio è il ritratto fisico di Dante fornito dalla descrizione del nipote Andrea Poggi. Sì, è grazie a questo testo che sappiamo del suo importante naso aquilino, barba e capelli scuri e della sua grande mascella. Boccaccio nasce nel 1313 e all’epoca Dante si trovava presumibilmente presso la corte di Cangrande a Verona, era proprio difficile farli incontrare.

Il Trattatello in laude di Dante è un testo molto rilevante e allo stesso tempo poco noto; si possono ritenere fortunati coloro che lo studiano all’università, considerando che, probabilmente, viene citato di sfuggita nelle antologie scolastiche. Per i filologi e critici è come una droga, analizzare questa opera, considerando che ci sono ben tre redazioni, di cui due autografe: Il Toledano per la prima redazione e il Chigiano per la seconda. Abbiamo anche il Riccardiano, non autografo, per la terza stesura, ma che in realtà è preso meno in considerazione. Tra i primi due è possibile trovare differenze rilevanti come molti meno contenuti nella seconda e varie omissioni e critiche di Boccaccio un po’ rabbonite.

Lo scrittore certaldese, nei primi paragrafi della sua biografia, dirà di sentirsi “in solido obbligato” di dare giustizia al “fiorentino esule senza colpa” utilizzando l’idioma toscano con un “istilo assai umile e leggiero”. Premetterà anche di commettere, sicuramente e ingenuamente, degli errori che vorrà che gli siano segnalati dai più savi e che, in caso contrario, la mancanza di questi sarà sicuramente dovuta all’aiuto divino che guida la sua debole mano.

PRECISAZIONE: le sue imprecisioni sono motivo ludico per i filologi che vanno a caccia di differenze collazionando le redazioni. Vi consiglio infatti di acquistare l’edizione Garzanti curata da Luigi Sasso che offre una prefazione e delle note veramente autorevoli e complete.

L’incipit dell’opera riporta la sentenza di Solone (legislatore ateniese del VI secolo a.C.) dove paragona l’andamento di una Repubblica allo stare in piedi e di come essa possa zoppicare quando il piede destro, la giustizia, lascia impuniti dei reati e di come il piede sinistro, la riconoscenza, smetta di legittimare i giusti meriti delle persone. Ovvero, Boccaccio scocca una freccia non molto velata nei confronti di Firenze che ha esiliato Dante e la fazione bianca, lasciando impuniti i responsabili, e di come la città non sia mossa per rivendicare la salma del poeta che riposa a Ravenna. Ribadisce la sua indignazione con una seconda invettiva che non sarà presente nella redazione del Chigiano. Boccaccio schiavo dei poteri forti.

Seguiranno poi nel testo le origini della città di Firenze, dei suoi avi, dei suoi studi.

Un’altra nozione interessante in merito a questa opera è la presenza di svariati topoi letterari. Un esempio è il sogno della madre che partorisce sotto un albero di alloro e di come Dante, neonato, inizi a nutrirsi delle sue bacche. Molto frequente quando si vuole indicare la predestinazione di una futura e magna carriera da poeta. L’autore, probabilmente, la riprende da Elio Donato, autore della biografia di Virgilio.

Da non dimenticare il principio medievale “Seguì al nome l’effetto”: Dante/ Durante è colui che dà. Lo scrittore delle tre corone non fa a meno di esprimere il suo apprezzamento per il protagonista del suo testo.

La seconda invettiva dell’opera è contro il matrimonio che distrae il poeta dai suoi doveri da scrittore e di come le mogli risultino spesso e volentieri invadenti e incontentabili. Qui le donne che leggono questo articolo potrebbero tacciarmi di mal comprensione quindi vi riporto i paragrafi in modo da potervi fare due risate sui costumi e le credenze dell’epoca (paragrafi 46-59). Conclude mettendo le mani avanti per cercare di giustificarsi per la sua opinione troppo aspra in merito. Forse si era reso conto di avere anche un pubblico femminile tra i suoi lettori.

«Né creda alcuno che io per le su dette cose voglia conchiudere gli uomini non dover tôrre moglie; anzi lodo molto, ma non a ciascuno. Lascino i filosofanti lo sposarsi a’ ricchi stolti, a’ signori e a’ lavoratori, e essi con la filosofia si dilettino, molto migliore sposa che alcuna altra.»

Boccaccio, in una epistola ad un amico, si congratula per aver preso moglie e per contare molto sul suo conforto, ma precisa anche che questo tale era un mercante, non un uomo di lettere. Un po’snob, non c’è che dire. Peccato non avesse un caro amico che gli abbia potuto regalare il saggio di Manconi Non sono razzista ma.

Segue poi l’esposizione della brillante e fulminea carriera politica dell’Alighieri, il priorato (15 giugno- 15 agosto 1300), il conflitto tra le fazioni guelfe e le spedizioni da ambasciatore. Per la trattazione delle tappe dell’esilio abbiamo molte discordanze, ma i critici ammettono la complessità del constatare con assoluta certezza tutto il percorso d’esilio.

Nella sezione dedicata alle opere incontriamo la Vita Nova, di cui dice che probabilmente Dante se ne vergognò in età matura visto che fu composta in lingua volgare. Qui rettifichiamo l’errore di Boccaccio: il critico Luigi Sasso avvalora la tesi contraria dicendo che nel Convivio (I,1,16), posteriore, difende la sua opera giovanile. Seguono poi anche il De vulgari eloquentia, Monarchia (collocati approssimativamente durante gli anni dell’esilio), Egloghe, Epistole (che taglia dalla seconda redazione).

 La Divina commedia la fa coincidere con i 35 anni del poeta; i primi sette canti nascono prima dell’esilio, e aggiunge il mito degli ultimi 13 canti ritrovati da Iacopo. Viene spinto dallo spirito del padre a cercarli in un nascondiglio preciso. La credibilità di ciò è tutt’oggi dubbia.

 Si aggiunge, in conclusione, anche il mito dell’epistola di Frate Ilaro dove racconta di come in realtà la Commedia fosse inizialmente composta in lingua latina. A sostegno di questa tesi cita anche i primi tre versi. Ci sono state mille interpretazioni a riguardo su come questa testimonianza sia un mero esercizio ludico di Boccaccio o se questo frate sia realmente esistito. Viene anche ipotizzato che l’autore avesse scelto la lingua volgare poiché impossibile eguagliare Virgilio. Sicuramente i primi dedicatari delle tre cantiche erano Uguccione della Faggiuola – Inferno, Moruello Malaspina – Purgatorio, Federico III D’Aragona – Paradiso. Probabilmente non era ancora stato a Verona da Cangrande che l’ospitò per diversi anni e a cui dedicherà in un secondo tempo l’ultima cantica. 

Una gatta da pelare che ha dato lavoro a tantissimi studiosi.

La lettura chiude col topos mediale della barca che rappresenta, allegoricamente, la scrittura che solca il mare della conoscenza e che potrete ritrovare anche nel Paradiso.

Quest’articolo esiste grazie al corso di letteratura umanistica della professoressa Monica Bertè, che ringraziamo anche se non ci leggerà mai.

Federica Andreozzi

Leggo da sempre, e ho deciso di diventare miope e astigmatica solo per provarlo a tutti. La mia compagna di vita si chiama Ansia, che mi somiglia ma ci vede benissimo. Recensisco di tutto, anche le etichette delle camicie, ma se mi date un fantasy non potrò che assumere l’espressione schifata in foto.

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