Servo e serva di Ivy Compton Burnett è ambientato a fine Ottocento, dato alle stampe per la prima volta nel 1947 e la casa editrice Fazi lo ha pubblicato in Italia a settembre del 2021, quindi non si può davvero parlare di “nuova uscita”.
Benché il titolo possa fungere da simpatico trabocchetto, Servo e serva non parla di domestici, ma parla di servitù. In senso lato, più metaforico e astratto.
La morale della favola, qui, è che tutti siamo servi di qualcuno. La libertà è una chimera che vediamo brillare da lontano, nella fugace illusione di possederla, senza renderci conto che invece è distante anni luce da noi e dalla nostra utopia.
Non siamo padroni di noi stessi, come ci piace credere. Ognuno è servo di qualcun altro, pur senza rendersene conto, o di qualcosa, senza averne la minima idea. L’ironia di fondo è che di solito, come accade in Servo e serva, non sappiamo di chi o di cosa, fin quando non è troppo tardi.
La consapevolezza, quando arriva, è la chiave della nostra libertà ma spesso, nell’agonia della liberazione, non ci accorgiamo che anche essa ci tiene come servi, e spesso è una responsabilità troppo grande a cui preferiamo rinunciare. Quando si dice che la vera avventura è il viaggio e non la meta.
In una casa sita in un luogo non pervenuto, presumibilmente la campagna inglese, Ivy Compton Burnett ci racconta un periodo di tempo non meglio specificato, fra cui passa anche il Natale, di una famiglia invece caratterizzata benissimo.
L’autrice delinea alla perfezione esteriorità e apparenza, identità e psicologia di ciascuno dei personaggi principali, finanche di quelli apparentemente secondari, e lo fa soprattutto attraverso i dialoghi.
Sono i discorsi che fanno i protagonisti e non i protagonisti che fanno dei discorsi.
Lo stile, la scelta dei termini, l’ironia utilizzata e anche una certa quantità di pensieri non espressi ma sottintesi ci forniscono con esattezza dettagli sul carattere, sui valori, sulle maniere e persino sul modo di pensare di ciascun personaggio.
Il protagonista indiscusso è Horace Lamb, pater familias, marito, padrone. Un uomo piccolo, non di bell’aspetto e non troppo giovane, descritto come dispotico e avaro ma la cui forza interiore è in grado di innescare un moto di rivoluzione. Horace Lamb, anche se il cognome direbbe tutto il contrario (lamb in inglese vuol dire agnello), è un generatore di campo gravitazionale con una forza attrattiva tale che tutti gli altri membri della famiglia si sentono al contempo attirati e respinti da lui e non possono fare a meno di girargli intorno. Il suo peso e la sua rilevanza saranno essenziali per lo sviluppo dell’intreccio tanto che, alla fine, ognuno dei componenti della famiglia avrà la propria epifania non grazie alla sua presenza, bensì a causa della sua – seppur presunta – assenza.
Attorno alla figura del padrone di casa gravitano Charlotte, la moglie, e i loro cinque figli; Mortimer, il cugino mantenuto e segretamente innamorato – e ricambiato – di Charlotte; e la servitù che, invero, ha in dono dall’autrice molto spazio dove brillare per conto proprio. Bullivant, il maggiordomo, uomo integro e devoto; la Signora Selden, la cuoca, donna dalla morale altissima; e i loro due aiutanti, Miriam e George, l’una indifferente alla vita, l’altro troppo appassionato.
Horace è il perno centrale della narrazione ma è anche la figura più incompresa, al pari di George. Questo perché sono gli unici due personaggi da biasimare: Horace è stato troppo severo e rigoroso nel crescere i figli e ha rovinato loro l’infanzia con la sua politica dell’austerity, parola di Charlotte. Mentre George è così vitale e pieno di passione che non riesce ad accettare la propria condizione e sottomettersi, finendo poi per compiere azioni abiette e condannabili.
Sono i villains che non meritano il perdono e la redenzione nemmeno quando l’uno cambierà atteggiamento e diventerà il padre perfetto, e l’altro abbasserà il capo e chiederà, per la prima volta in vita sua, scusa.
Tuttavia, sono gli unici ad essere davvero liberi.
In un romanzo che esalta la servitù, coloro i quali non si sottomettono appaiono come antagonisti anziché figure positive, e questo dovrebbe far riflettere.
Tutti, i membri della famiglia, prima ancora dei domestici, pensano di essere servi di Horace e della sua volontà dispotica ma, quando sembra che stiano per essere liberati dal suo giogo, hanno la loro epifania e comprendono che non è il padrone a renderli servi, bensì qualcosa di insito nella loro natura di uomini e donne. Vedono chiaramente cosa in realtà li tiene sotto scacco e sembra quasi che preferiscano sottomettersi di nuovo, anche solo – stavolta – all’idea di essere servi, piuttosto che affrontare i loro demoni interiori.
Gli unici due a non dover andare incontro a questo processo sono Horace e George, proprio perché non hanno mai avuto paura di rivelarsi per quello che sono.
Ci sarà chi scoprirà che la condizione di servo gli è imposta dal proprio egoismo, chi capirà che è un modo per tenere a bada la sua natura malvagia e chi, ancora, aprirà il vaso di Pandora per trovarlo invece vuoto.
Fra tutti gli schiavi di sé stessi, chi patisce la sorte peggiore è la signorina Buchanan, negoziante del paese che offre anche un servizio di posta privata e che spoiler: non sa leggere. È lei, più degli altri, a pagare le conseguenze della sua – auto imposta – servitù, obbligata a una vita solitaria e costantemente all’erta che non potrà mai abbandonare.
Ivy Compton Burnett utilizza ogni personaggio da lei creato per veicolare un messaggio sui vizi, le virtù, le debolezze e la forza dell’animo umano. La signorina Buchanan trasmette quello più importante: scientia potentia est.
Servo e serva si chiude, come una circonferenza perfetta, nello stesso identico modo in cui era cominciato: con un simpatico siparietto fra familiari riuniti davanti al camino.
A dimostrazione che se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.