O memoria spietata, che hai tu fatto,
del mio paese?
Un paese di spettri
dove nulla è mutato fuor che i vivi
che usurpano il posto dei morti.
Qui tutto è fermo, incantato,
nel mio ricordo.
Anche il vento.
Sono i versi di Ritorno al mio paese di Vincenzo Cardarelli che muovono Qui tutto è fermo, il romanzo di Matteo Edoardo Paoloni.
C’è una sensazione o meglio una percezione che potremmo definire come: sindrome del fuorisede e che ovviamente non colpisce solo gli studenti ma tutti quelli che per varie ragioni si spostano dal proprio luogo d’origine. Ed è quella strana idea che nel posto lasciato il tempo si fermi.
Si fermi a come lo ricordiamo, a come lo abbiamo lasciato, mentre la nostra vita va avanti; ci aspettiamo, tornando a casa, di ritrovare i vecchi luoghi. Il ritrovo al parco, la panchina sulla quale stavano incisi i nomi di tutta una vecchia comitiva, il solito bar. Per poi trovarci sorpresi dal tempo che passa, e lo fa anche in quel piccolo angolo di mondo; le panchine sostituite con quelle nuove, immacolate e bianche, il vecchio bar ormai chiuso, i cugini più piccoli, ormai cresciuti, ad occupare il ritrovo al parco dove tanto tempo prima anche tu hai bighellonato con i tuoi coetanei. E l’esatta sensazione della percezione di due vite distinte tra il prima e il dopo.
Con un po’ di romantica esagerazione è quello che più o meno si trova a vivere Guido, protagonista di Qui tutto è fermo. Guido vive a Madrid da molti anni, ha lasciato Tarquinia e la tranquillità della maremma laziale per la metropoli, per le possibilità, o meglio, le attività che si propongono ad ogni angolo, anche se finché non accetti restano solo possibilità, e se le ignori vanno perse, per cui la differenza tra una metropoli ed un paese di provincia si assottiglia pericolosamente.
Guido si vede costretto a lasciare, almeno per un periodo, il caos metropolitano per tornare al paese d’origine. Dove ad attenderlo si profila non solo la situazione familiare attuale, in equilibrio già precario per via del tumore della madre, ma anche strascichi di quella che ai suoi occhi era un’altra vita.
Infatti, anche se il protagonista continua a ripetersi che a Tarquinia tutto è fermo, cercando sempre conferma di questa immobilità, nei luoghi e nel paesaggio, ed anche un po’ nelle persone, scoprirà presto che è vero che tutto è fermo ma, continuando i versi del poeta, solo nel ricordo.
Questo può avere una duplice valenza: Tarquinia è si ferma in un determinato momento della sua memoria, ma lui con lei. Intrappolato, senza piena consapevolezza, in quei nodi del suo passato che non ha sciolto, ma che ha semplicemente lasciato indietro.
Purtroppo i nodi, materiali o metaforici, vanno prima o poi affrontati. Si può andare avanti per un po’ ma alla fine creeranno problemi alla trama. E il Guido ventenne che lascia l’Italia la prima volta, per l’Erasmus, di nodi nella sua trama ne aveva già un bel po’. Da orfano di padre, ad adolescente solitario, lo sorprenderà l’incontro tra i banchi di scuola, con l’amico Alberto, così come lo sorprenderà la sua morte.
La figura di Alberto, come quella di Lorenzo, il padre, continuano a gravare sulla vita del protagonista con il peso delle loro mancanze. In un certo senso la morte coglie Guido sempre di sorpresa, mentre è distratto. La prima volta con la perdita del padre, avvenuta quando era bambino, che lo porta a creare nella sua mente una figura statica con il volto paterno, incapace di dargli movimento e voce. E la seconda volta in mezzo al Tirreno, su un pedalò sotto la pioggia, imbottito di pasticche il giorno di Pasqua. Alberto, anche lui figura inafferrabile della sua adolescenza, gli è scivolato via standogli accanto, prima c’era e ad un certo punto non c’era più. A Guido resterà solo il quesito irrisolto sulla intenzionalità o meno del gesto.
Forse però Guido da quel pedalò non è mai davvero sceso, ad un certo punto le acque si sono calmate e lui ha semplicemente scelto di pedalare via con difficoltà.
I vivi però, usurpato il posto dei morti, reclamano la sua attenzione. È nel presente che si vive, e in questo presente ci sono sua madre, sua sorella Chiara, Nanni e Guadalupe.
In una famiglia dai rapporti tesi ̶ o è così che li ricorda filtrati dalla sua adolescenza? ̶ Guido si appresta a svegliarsi dal torpore, dall’indolenza, a guardare alle persone senza il filtro dei ricordi, riallacciare i rapporti con sua sorella Chiara, che nel frattempo non è più la bambina che schiacciava le pigne su un muretto, ma è una giovane donna alle prese con l’università, l’amore e, come lui, con il cancro della madre.
Si appresta a vedere Nanni, non come l’uomo che semplicemente non è suo padre biologico, ma come l’unico padre che c’è sempre stato. Un uomo con i suoi dolori e i suoi tormenti, le preoccupazioni di marito e di genitore.
E infine a riscoprire una donna, una vedova, una moglie, una persona che affronta la malattia con coraggio, una madre, la sua, la cui diagnosi rimette in discussione tutto, rimette in moto la famiglia addormentata, adagiata su rodati schemi, abitudini e rapporti.
Se Qui tutto è fermo quella che non si ferma è Nicoletta, la madre di Guido, una figura ambivalente, se da un lato cede, dall’altro continua spronare, dirigere, esortare, con tutta la forza di chi non si arrende passivamente né alla vita e né alla morte.
Proprio grazie a lei il figlio riuscirà, forse, a salvare, questa volta, ciò che per lui conta, ad acquisire il coraggio dell’azione, che nella sua vita gli era sempre un po’ venuto meno nei rapporti importanti.
Perché alla fine niente resta fermo, soltanto noi.
Add: se vi piacciono le storie ambientate in luoghi non troppo grandi ed affollati, sia veri che possibili, la vostra prossima lettura è qui.
Recensione davvero toccante, delicata, e al contempo incisiva!