Per i cent’anni dalla morte di Giovanni Verga c’è stata scarsa partecipazione, ma per fortuna sono usciti due volumi per Solfanelli che ci hanno risollevato.
In realtà capisco bene il motivo per cui in pochi si sono spesi per parlare di Verga e delle sue opere in quest’occasione: a scuola ce lo fanno odiare. Sì, mi includo, perché ricordo le lezioni sull’autore siciliano come tra le più noiose del quinto superiore. L’idea che avevo era di un vecchio barboso con trame confusionarie, ma che aveva scritto La roba. Sembrava l’unica parte riuscita della carriera, mentre il resto era importante da studiare pur senza bisogno della diretta lettura. Nulla di più sbagliato.
Leggere I Malavoglia è stata una rivelazione. Non pensavo di poter compiere un cambio così repentino nel valutare un autore e la sua opera. Chiedere la trama dettagliata di questo romanzo durante un’interrogazione dovrebbe rientrare tra i crimini ai danni dell’arte, perché la grandezza della storia dei Toscano risiede negli spazi tra le righe. Ci insegnano che la forza dei classici non è nella trama ma in ciò che nasce dopo la loro lettura. Perché racchiudiamo invece Verga in due paragrafi di poetica e nelle sinossi estese di un paio di testi?
Guardiamo però da più vicino le pubblicazioni su Giovanni Verga per Solfanelli.
Antonio Catalfamo racconta la storia della critica sull’autore mettendo i critici in relazione tra loro, quasi dialogano. Luigi Russo, Momigliano, Giuseppe Petronio e tutti i maggiori commentatori sono i protagonisti del lungo excursus della prima parte di Verga Verista. Ideologia e forme narrative. L’idea è quella di offrire una visione il più possibile completa sullo scrittore siciliano. Una volta acquisita la lezione quasi totale, potremo finalmente dare una svolta critica. Barberi Squarotti – presente anche in questo volume – è uno di questi lumi. La parte sulle sue intuizioni vale il testo (ma potrei essere di parte).
Il libro di Simone Pettine segue invece una specifica via tra le opere di Giovanni Verga, e inaugura la neonata collana Il drago blu di Solfanelli.
“Della morte si tende a parlare poco, se possibile a non parlare affatto. Non occorre, credo, andare alla ricerca di particolari motivazioni psicologiche, o storico-culturali: chi evoca con piacere la fine dei propri giorni, o indulge in considerazioni troppo minuziose in proposito? Così per la letteratura: un tema affascinante, ma spesso affrontato con circospezione dalla critica.”
Ecco, noi invece ne parliamo spesso e in ogni forma, fino all’estremo Il mio gatto mi mangerà gli occhi? E altre grandi domande sulla morte di Caitlin Doughty. Per questo e altri motivi dovevamo assolutamente leggere Un viaggio nel quale si riposa per sempre. La morte in Verga.
Il percorso di Simone Pettine prende molto dalle lettere, dalla parte meno nota dell’autore, portando comunque il tutto nel raffronto con le opere. L’immagine che ne esce è sorprendentemente moderna, alla faccia degli insegnanti delle superiori. Il volume è presentato da Mario Cimini, probabilmente il professore che ho amato di più all’università (e poi mi chiedete come sia possibile la mia smisurata passione per Il principe e la Vita nova…).
Unico neo di questi saggi è che ora voglio leggere di nuovo Verga.