Sono tornata: dopo aver letto Benevolenza cosmica, ho deciso di leggere anche Nova di Fabio Bacà. Perché?
I libri di Fabio Bacà rappresentano una sfida per me. Hanno un dettaglio inafferrabile, un pensiero illuministico che la mia mente non riesce del tutto a cogliere.
O sei illuminato, o non lo sei. O sei innamorato, o non lo sei. O sei pronto, o non lo sei.
Ed io probabilmente non sono nessuna di queste cose, né illuminata, né innamorata, né pronta. Soprattutto sono consapevole, ed è una mancanza, di essere una persona poco spirituale.
Nova, tra le tante cose, si fa portatore di una cultura zen di una sublimazione della noia, di una soppressione dei canoni temporali con cui viene scandito il tempo. E di teorie sulla formazione e l’evoluzione dell’universo che mi fanno sentire piccola e molto poco illuminata.
Dicevo però che i libri di Bacà rappresentano una sfida. Ci sono punti in cui la narrazione scorre velocissima e la trama ti avviluppa completamente e parti in cui ti stai chiedendo perché leggere un libro così lontano da te. Forse perché si impara sempre qualcosa di nuovo.
In Benevolenza cosmica, così come in Nova, lo scrittore ci pone di fronte a grandi interrogativi sull’agire umano. Di egoismi, di passioni, di istinti di conservazione.
Durante il prologo ci viene posta la prima grande domanda che ritornerà all’interno della narrazione, come reagiremmo davanti ad una manifestazione di rabbia, di forza bruta, di cattiveria; tra lo stordimento ad un’emozione a cui non siamo abituati, resteremmo in silenzio o ci prodigheremmo per fermarla?
Una risposta a questa domanda potremmo averla solo se accadesse, nessuna supposizione vale, nessuna reazione solita ci potrebbe venire in aiuto.
Sarà proprio una situazione al limite del dilemma morale che Bacà va a preparare nella trama per il neurochirurgo Davide Ricci.
Davide, che conduce una vita tranquilla con sua moglie Barbara e suo figlio Tommaso in una villetta di Lucca. Poche seccature, se si contano il suo diretto superiore, il primario, e Massimo Lenci, gestore di un locale notturno e rumoroso vicino di casa.
Il nostro neurochirurgo ha un pensiero ricorrente al quale spesso al mattino si abbandona, il pensiero del nulla eterno, della morte, di non avere più un singolo problema al mondo. A parere personale, lui – così come Kurt O’Reilly – non ne ha poi così tanti, però ognuno ha i suoi dispiaceri.
In ogni caso Davide non “affoga” nella morte solo i suoi dispiaceri. Ma anche chi ne è causa, immaginando quindi la triste dipartita di vicini, superiori, genitori, moglie, figlio, celebrità del cinema, dello sport, allargando via via la cerchia.
Un applauso a Bacà che riesce a far apparire allettante il pensiero del congiungimento con il creato.
Andando avanti con la lettura, scopriamo che il mite Davide si vergogna di questa sua mitezza, che sfocia spesso in codardia. Come quando non si oppone alle minacce di ritorsione del suo vicino o quando non riesce a difendere moglie e figlio dalle molestie insistenti di un ubriaco.
Proprio durante questo episodio la vita di Davide si incontra con quella di Diego. Che ai suoi occhi ricopre il ruolo di salvatore che lui non è riuscito ad interpretare.
La vita di Diego però è sempre stata segnata dalla violenza, o meglio, da una ricerca quasi spasmodica della possibilità di espressione di un sentimento di rabbia. Una rabbia di cui in realtà è intriso il mondo e che a stento riusciamo a controllare. Forse solo a mascherare finché le funzioni reggono, ma al minimo cenno di cedimento la situazione precipita in un bagno di sangue.
Diego negli anni è arrivato a praticare lo zen, che lo ha aiutato a dominare il Potere in lui invece che esserne dominato. E cercherà di fare lo stesso con Davide. Scuotendolo dalla tranquillità di una vita che è tranquilla solo perché evita accuratamente di vedere ciò che non vuole.
La scoperta della rabbia da parte di Davide, la sua e quella del mondo intorno, porteranno, ovviamente, ad una situazione di crollo e degenerazione di cui non posso parlare. Perché è un grosso spoiler che vi rovina il libro, anche se gli indizi ci sono tutti ed io li avevo colti.
Posso però parlarvi del quesito finale cui si ritroverà a rispondere Davide. Il neurochirurgo dovrà decidere volontariamente se togliere una vita oppure no, se essere dominato dalla rabbia oppure dominarla. Non sono più solo un medico seduto al capezzale […]. Sono il figlio prediletto della foresta e del fiume. Sono il nucleo ribollente di Potere acquattato nelle tenebre in attesa di emergere. Sono l’uomo con gli occhi chiusi, e medito sul tremendo koan oltre il quale saprò se sono capace di uccidere per salvare me stesso.
Come dicevamo prima, per rispondere a questa domanda le speculazioni non sono sufficienti. In una situazione al limite, in una situazione in cui non penseremo mai di imbatterci nella nostra vita, bisogna capitarci per poter provare a risolvere questo quesito etico, amplificato dalla posizione di medico del protagonista.
Io voglio invece provare a proporvi un altro tipo di riflessione; non sono illuminata e non ne so nulla di pensiero zen, ma scomoderò il pensiero pratico di Orazio per dirvi che est modus in rebus. Esiste una misura nelle cose, credo che si possa applicare anche alle azioni a cui ci porta l’ira. Tra il non esperire questo sentimento primitivo, di sovrastazione, questa espressione di forza bruta che ci ha permesso l’evoluzione e il decidere arbitrariamente sulla vita degli altri, senza pensare alle conseguenze, ci sono molte altre sfumature che, giunti a questo punto dell’evoluzione, non possiamo non considerare; non so voi, ma io non ho voglia di tornare nelle caverne.