Monarchia – Dante

La Monarchia di Dante Alighieri è un trattato organico sulla visione politica e sociale dell’autore fiorentino che stiamo riscoprendo con la nostra rubrica Un Dant’al chilo. Al solito lo fa con una generosa dose di religione. In effetti non è un problema della sola epoca trecentesca, basti vedere quanto sia pesante la mano vaticana ancor oggi nella decisione delle leggi.

Il libro nasce dall’animo ferito di un intellettuale in esilio che ha vissuto ormai la morte dell’ultima speranza, l’imperatore Arrigo VII. Nella mente del poeta sarebbe stato l’unico comandante in grado di fermare le lotte fratricide in Italia (e a Firenze); purtroppo morirà nel 1313 a Buonconvento. Dante inizia a scrivere proprio in quest’anno il De Monarchia (nell’originale latino), per poi finirlo intorno al 1318. In pratica è realizzato soprattutto durante la residenza a Verona presso Cangrande della Scala.

Mi sono reso conto dell’importanza delle immagini studiando Dante. Anche io mi sarei stabilito da Cangrande della Scala per cinque anni, anzi, non me ne sarei mai andato. Conosciamo tutti i sovrani e leader militari da monumenti e ritratti che li raffigurano con un certo cipiglio. Lo Scaligero invece non ne ha bisogno, e si fa amare così:

Cangrande - della scala
Ciotto e felice

Ma torniamo a quest’opera così spesso sottovalutata dalle antologie scolastiche (dove però ci sono almeno un paio di noiosissimi brani del Convivio). Innanzitutto la datazione è tutt’altro che certa, ma il lasso di tempo possibile va da 1308 al 1318 e ci sono pochi testimoni.

Nella Monarchia Dante organizza il suo discorso in tre libri dove, tramite una lunga sequela di sillogismi, espone in modo ordinato la sua idea riguardo la confusione sul potere che si è originata nel corso dei secoli. L’unico problema è che i ragionamenti partono da un’idea troppo utopistica, e cito direttamente l’incipit tradotto da Federico Sanguineti.

Sembra che tutti gli uomini che sono stati indotti dalla natura superiore ad amare la verità si riconoscano in questo supremo dovere: come si sono arricchiti del lavoro degli antichi, così dovrebbero lavorare essi stessi per i posteri, affinché questi ricevano da loro nuova ricchezza.

Belle parole, certamente. Questo fa parte anche del pensiero religioso del poeta, per cui il fine ultimo della società sarà la pace e l’unione totale. Fa quasi tenerezza. Ed è qui che subentra questa famosa monarchia, anche se, più che un sovrano, Dante immagina un imperatore a comando di tutti. Sia chiaro, un tempo non ero così cinico ed anch’io pensavo che il Sommo avesse ragione nel volere un futuro roseo e fatto di pace e amore. Torniamo indietro di quindici anni.

Interrogazione sulle opere minori del Nostro, mi viene rivolta una semplice domanda: “Monarchia: Dante è proiettato verso il futuro o il passato?” “Ovviamente il futuro, Dante sta avanti!” “Ma come, c’è pure Monarchia nel titolo! Più di sei non posso metterlo”. [N.d.A. Segue lunga contrattazione, spuntata alla fine con sei e mezzo]

Qualche anno dopo ho letto il testo per intero e forse ho capito i motivi per cui la professoressa non sposava la mia risposta.

Il primo libro spiega con undici trattazioni che avere un Imperatore a organizzare una società è meglio che non averlo, anzi, è il solo modo per governarla a dovere verso un unico obiettivo. Tanto più se l’Imperatore, come il Papa, viene scelto dalla sapienza divina che architetta tutto in modo che i puri di cuore trionfino. L’esempio scelto, alla fine, è Augusto. Questo è un gancio per il secondo libro, sulla superiorità del popolo romano. È il popolo più nobile, con origini nobili, e abita la porzione di terra più nobile. La Monarchia purtroppo manca di quella ricercatezza lessicale a cui Dante ci aveva abituati. In più sembra aver cambiato idea rispetto alle dure parole del De vulgari eloquentia.

Un’altra prova è da ricercare nei miracoli compiuti da Dio per favorire i romani, e ne sono testimoni i vari Livio, Lucano, Virgilio. E poi Gesù portò il Cristianesimo proprio ai romani, mica agli indiani o i russi. Doveva essere per forza il popolo prescelto.

Con queste tesi, che nel mio testo scolastico non c’erano, avrei detto che Dante era arretrato. Poi mi sono ricordato di un incipit di frase della mia prof: “Guarda, ha detto il Papa…”. Ecco dove nasceva l’inghippo: il terzo libro. Qui Dante mette sullo stesso piano Imperatore e Papa, perché la loro autorità discende in entrambi i casi da Dio. Per farlo discute vari sillogismi presenti nella Bibbia, e sono così squisiti che vi rimando alla lettura diretta senza anticiparvi nulla. I sillogismi vengono demoliti da altri sillogismi, e diverte tanto la capacità di analisi del poeta fiorentino, che ne sviscera gli schemi (se A è B allora… ma B non è uguale a A perché… e così via).

L’unico vincolo che si pone all’Imperatore è la reverenza verso il Papa, perché prima o poi si dovrà passare dalla felicità terrena a quella eterna.

Questo terzo libro varrà un rogo nel 1329 per eresia, motivo per cui ci sono arrivati solo una ventina di manoscritti. Nel 1559 Dante è ancora una volta in testa, infatti finisce nel primo Indice dei libri proibiti. La verità ha sempre un prezzo, che talvolta può essere riassunto in un sudato sei e mezzo. E chissà cosa sarebbe successo se Dante avesse teorizzato la superiorità dell’Imperatore!

Aniello Di Maio

Aniello di Maio è nato l’ultima volta a Castellammare di Stabia (NA), ma si definisce pescarese per evitare lo spirito di competizione. Allevato da un diplomatico presso l’ambasciata spagnola, ha acquistato un veloce eloquio, così veloce che è meglio leggerlo che ascoltarlo. Ha amato così tanto studiare Lettere moderne che ha trascorso almeno il doppio degli anni fuori corso, un po’per l’ansia dilagante, un po’perché non riesce ad essere serio a lungo. Neanche in quattro righe di biografia.

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