Troppo viene scritto da uomini che non sanno scrivere sugli uomini che scrivono […] Cercano di criticare la polvere delle stelle, il volo di meteora dei maestri. Una volta ho scritto qualche riga su questo argomento, sui critici, o meglio, i recensori.
Con queste parole Martin Eden, protagonista dell’omonimo romanzo di Jack London (pubblicato nel 1909) apostrofa – e ferma – chiunque si accinga a recensire un testo. E io, Mart, in tuo onore, non darò né critiche né giudizi, perché so che non li apprezzeresti.
Fin dall’inizio, dal momento in cui quel diamante grezzo entra nella stanza, si prova un moto di tenerezza ed empatia verso il “signor Eden”, sensazioni che permangono per l’intera lettura. È infatti il suo punto di vista il protagonista indiscusso della narrazione. Il lettore ragiona con lui, impara, pensa, conosce, spera con lui. Si convince delle sue convinzioni, si fa carico dei suoi problemi, si affama con lui, che sia di conoscenza o concreta fame di cibo, tanto grande è la capacità di London di coinvolgere. E il coinvolgimento compie un climax così ampio che non si ha più la percezione di cosa sia reale e cosa sia invece pilotato dal protagonista.
Martin Eden di Jack London è un vero e proprio romanzo di formazione; il lettore assiste all’evoluzione interiore del personaggio, alla sua crescita spirituale e intellettuale.
Martin si innamora di un pallido spirito di donna e da qui ha inizio la sua rinascita, il suo riscatto sociale. Il suo genio si libera, il suo intelletto si sprigiona immenso come un fascio di luce bianca, un faro nell’oscurità torbida della classe operaia. Egli sente di non appartenere al luogo in cui il diritto di nascita l’ha collocato. Vuole innalzarsi fino alle cime dell’intellighenzia per bene e borghese, quella a cui appartiene Ruth, dove potrà meritarla.
Il protagonista si impegna, studia, lavora diciannove ore al giorno e fugge l’oblio del sonno, ma, soprattutto, Martin spera. Si definisce realista ma in realtà è un idealista, un sognatore. Crede in sé stesso, nella sua lotta all’innalzamento; il suo carisma è così forte che rende il lettore permeabile ai suoi sogni e alle sue speranze.
Il romanzo si fa trattato filosofico, insegna ciò che Martin impara, precorre Le parole e le cose di Michel Foucault (1966) nella convinzione del protagonista – donatagli dalla lettura di Herbert Spencer – di dover capire l’anatomia e la biologia delle cose per poterle comprendere e trasformare in parole. Si leggono nomi di grandi pensatori e scrittori, autori e critici.
Lo sforzo incessante nel seguire le proprie convinzioni, i propri ideali e i propri sogni, a dispetto delle aspettative di tutti coloro che lo circondano, è così preminente che svetta sopra ogni altro tratto del romanzo. È più alto e potente delle meravigliose descrizioni, così evocative e suggestive che, dopo averle lette, nessun altra descrizione di nessun altro scrittore potrà mai reggere il confronto. Supera in bellezza persino la traduzione di Cecilia Scerbanenco (ed. Oscar Moderni 2019), ricca e ambiziosa nella scelta delle parole e del linguaggio da utilizzare per determinare le caratteristiche sociali dei personaggi; l’uso del se con il condizionale per distinguere la parlata ormai colta del protagonista da quella degli altri componenti del suo ceto produce un enorme impatto sulla lettura.
Ciononostante, l’entusiasmo caparbio di Martin non basta. Il suo impegno tormentoso e convulso lo porta così lontano che «Da allora, aveva viaggiato molto, era andato troppo lontano per tornare indietro. […] Ormai era uno straniero.» Straniero in terra natia, nella classe operaia e persino nei vertici della cultura che tanto anelava. Martin si ritrova ad essere uno straniero, di cui nessuno capisce lingua e intenzioni; incompreso in modo così profondo che, senza mai vacillare nelle sue convinzioni, si sente escluso persino dal suo successo.
Così, il romanzo passa dalla celebrazione della tenacia al fallimento delle aspettative, alla disillusione e al disincanto di un sogno; seppur realizzato, ha ormai perso di valore. L’ambizione e il coraggio, fidi compagni e alleati, non sono serviti nella lotta per mantenere viva la sua anima; il riscatto, cercato e raggiunto, ha avuto come conseguenza la perdita della sua identità.
Tuttavia, non è l’effimero uomo a fallire, bensì la società intera e i suoi cardini, la morale del lavoro e la chimera del successo. È la cultura ad annegare, il compimento vacuo della filosofia in una mente tanto brillante da accecare. L’annientamento dei sogni, estremizzato dall’incomprensione e dalla solitudine, rende misera persino la gioia che «non si trova nel successo che si ottiene per ciò che si è fatto, ma si trova in ciò che si fa, mentre lo si fa».
L’intento che il monito di Jack London voleva lanciare in Martin Eden, forse però, non era scoraggiante.
« […] nell’istante stesso in cui lo seppe, smise di sapere.»
Quando si dice che “un libro ti salva la vita”.
Ps: Consiglio caldamente la visione del film “Martin Eden” del 2019, diretto da Pietro Marcello.
Sebbene ci siano delle differenze rilevanti fra romanzo e trasposizione cinematografica, i punti salienti dell’opera sono stati trattati con lo stesso riguardo che ebbe London e la magistrale interpretazione di Luca Marinelli vale qualunque imprecisione della libera ispirazione.