Marconi, se ben mi ricordo – Antonio Tabucchi : recensione

Tendenzialmente buttiamo sempre un occhio alle ricorrenze, la memoria è un elemento imprescindibile. La RAI, poi, negli anni mantiene l’impegno a fare tesoro del passato e degli anniversari relativi. Nel 1995 ricorre il centenario delle prime emissioni radio a opera di Guglielmo Marconi e urge un doveroso omaggio. L’azienda del resto ha un’importante centro di produzioni radiofoniche e sente l’evento maggiormente rispetto ad altre realtà.

Serve un nome importante per celebrare i cent’anni della scoperta, e la scelta cade su Antonio Tabucchi. L’esordio avvenne con un romanzo storico, sa padroneggiare bene gli impianti temporali ed ha pubblicato da poco il suo capolavoro Sostiene Pereira, tornato immediatamente in auge grazie al film omonimo con Mastroianni. Sembra perfetto. Per chiudere il cerchio, lo scrittore di Vecchiano scrive un radiodramma dal titolo Marconi, se ben mi ricordo. È pubblicato da RAI-ERI nella collana Centominuti, dedicata proprio alla radio da leggere.

Tabucchi, maestro nell’arte dei mandala, pone l’azione nello studio di Radio Londra; ci troviamo nel 1935 e nel programma vocale celebrano due quarantennali: ovviamente l’invenzione della radio, ma anche l’espulsione degli anarchici da parte del governo elvetico il 29 gennaio del 1895. Il testo diventa fin da subito non solo un atto commemorativo, e denuncia una decisione politica che affaticò le libertà di molti. Lo studio di Radio Londra è praticamente perfetto, dunque, per sollevare questo tipo di questioni.

Il protagonista è Stephen Craig, conduttore libero che tiene alla sua scala di valori perseguendo l’idea che ogni voce abbia il suo motivo di esistere. Addirittura il primo ospite è il professor Taivan, esperto di storia e filosofia che non disdegna l’operato dello statista al potere in Italia in quegli anni. In ogni caso non può reggere a lungo e liquida con rapidità il docente e sostenitore di Benito Mussolini.

Gli ospiti però non finiscono qui. Il torinese Felice Andreasi interpreta Alberto Meschi, sindacalista anarchico molto vicino a Pietro Gori (nella trasmissione passano anche alcune sue canzoni). C’è quindi una autorevole voce per parlare dell’anarchia e dei tanti modi con cui cercarono di fermarne la diffusione.

Dicevamo che l’opera è destinata alle onde radiofoniche, e la messa in onda avvenne il 16 settembre 1995 sul terzo canale, con la regia di Giorgio Bandini (considerato tra l’altro l’inventore del radiodramma). Direzione di alta caratura, come per l’autore del testo, e pure gli attori non sono da meno.

Per il personaggio più importante della pièce, George Orwell, la parte va a Roberto Accornero. Noto soprattutto per il ruolo di Guido Geller in Camera Café, la sua carriera ha un forte legame con la letteratura: esordisce in Il diavolo sulle colline da Cesare Pavese e continua con Il fu Mattia Pascal nella visione registica di Monicelli; molte delle sue rappresentazioni derivano da libri di ottimo livello.

Ammetto che l’Orwell di Tabucchi però ha delle pecche, anche se giustificate. Arriva in studio con una chiromante, sorprendendo persino il presentatore.

GEORGE ORWELL – Perché non è da me? Io credo nei destini della Storia. Ma per il destino individuale, il destino privato, ebbene per quello ci deve essere qualcuno che lo predìca, qualcuno che lo interpreti.

a piedi scalzi - fanelli

Signore e signori, Una pezza di Tabucchi.

La maga predice la guerra, morte, distruzione, e addirittura è in grado di pronunciare parole che Orwell scriverà tempo dopo in Omaggio alla Catalogna. Il testo, nelle riflessioni sul riconoscersi nella storia personale e futura, diventa anche, per certi versi, un elogio dell’analisi storica a tutto tondo.

Il limite del radiodramma è la difficoltà di certi concetti che vengono comunque spiegati, è vero, ma manca il tempo di assimilarli per goderne appieno. Andrebbe però recuperato per lo stesso motivo: tanti rimandi interni ed esterni che cercano una compiutezza posteriore e cercano di mettere ordine su questioni calde.

GEORGE ORWELL – Noi, signor Stephen, e dico noi perché anch’io qui mi includo nelle minoranze, ebbene noi minoranza sapremo combattere contro il totalitarismo che sta soffocando l’Europa, lo sconfiggeremo, perché la Storia… ebbene, la Storia ha bisogno di amici e non solo di nemici, e la Storia può essere anche una bella ragazza che vuole essere corteggiata, e a volte vuole un bacio sulle labbra, ogni tanto e noi, noi tutti sapremo baciarla e faremo con lei una passeggiata nell’Iperstoria.

Aniello Di Maio

Aniello di Maio è nato l’ultima volta a Castellammare di Stabia (NA), ma si definisce pescarese per evitare lo spirito di competizione. Allevato da un diplomatico presso l’ambasciata spagnola, ha acquistato un veloce eloquio, così veloce che è meglio leggerlo che ascoltarlo. Ha amato così tanto studiare Lettere moderne che ha trascorso almeno il doppio degli anni fuori corso, un po’per l’ansia dilagante, un po’perché non riesce ad essere serio a lungo. Neanche in quattro righe di biografia.

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