Macchine come me – Ian McEwan : recensione

È il 1982, siamo a Londra. Al governo c’è Margaret Thatcher, si combatte la guerra delle isole Falkland e gli operai in sciopero vengono sostituiti da macchine estremamente efficienti. Si ascolta il nuovo album dei Beatles da cellulari sempre più sofisticati, il Pianeta è sempre più caldo e un minatore settantaquattrenne è stato guarito dall’artrite grazie all’inoculamento delle staminali. Se qualcosa suona strano, è perché in questo 1982 alternativo a John Lennon non hanno mai sparato, ma soprattutto Alan Turing ha vinto la depressione e non si è suicidato.

Basta questo perché Charlie Friend, appassionato di robotica, possa investire l’eredità materna nell’acquisto del primo androide del tutto indistinguibile da un essere umano, evocativamente chiamato Adam. Una volta attivato, però, Adam si rivela superiore a qualunque uomo possibile. Non solo è bellissimo, ha una forma fisica impeccabile ed è praticamente onnisciente, ma sviluppa presto capacità cognitive fuori da ogni parametro, e persino un animo artistico.  Così, in poche settimane, tra Adam, Charlie e la sua giovanissima fidanzata Miranda si instaura un rapporto ambiguo, fatto di affetto e invidia, gelosia e fascinazione, oltre che di un sacco di bugie.

Macchine come me è un romanzo affascinante, spaventoso e imprevedibile come il suo co-protagonista robotico. Esordisce come un distopico contemporaneo, tra Black Mirror ed Ex Machina, prende le pieghe della commedia e poi del dramma familiare, senza farsi mancare una venatura thriller. Durante la lettura, sono stata depistata a più riprese, incerta su cosa il romanzo volesse davvero raccontarmi. Soprattutto, ho creduto che la narrazione si sarebbe spostata su un piano più universale, che attraverso un piccolo dramma familiare avrebbe raccontato un’intera società.

Ma a ben pensarci, a McEwan sono sempre interessate soprattutto le persone, il modo in cui reagiscono a ciò che la vita mette loro davanti, spesso senza che si veda un disegno più ampio. O meglio, non reagiscono: i personaggi di McEwan sono spesso degli inetti, incapaci di assumersi le proprie responsabilità, autoassolutori e vigliacchi. Charlie Friend non fa eccezione da questo punto di vista e, pur essendo lui stesso la voce narrante, a tratti l’ho odiato, non perdonandogli di somigliare alla parte più sterile e indolente di me.

L’ambientazione ucronica, insomma, è accattivante, ma serve più che altro perché Turing possa vedere in azione una macchina che ha ampiamente superato il test da lui stesso ideato. Se Charlie è un mediocre, infatti, Adam è l’umanità al maggior grado di perfezione possibile, e nonostante questo viene considerato alla stregua di un animale da compagnia. Ma cos’è l’umanità, se non una costante tendenza a progredire, a migliorarsi? Eppure, non è proprio la natura robotica di Adam a far sì che possa attenersi in modo così rigoroso ai propri precetti morali e che sia, innegabilmente, molto più buono di noi? E forse è questo a indurre, nel lettore ma anche in Charlie stesso, una sorta di effetto uncanny valley, la sensazione di inquietudine e perturbamento che si prova quando una macchina somiglia davvero troppo a un essere umano, in questo caso in modo addirittura migliorativo.

Macchine come me è del 2019, ma suona più che mai attuale adesso, in un’epoca in cui fatichiamo a distinguere un originale da uno messo a punto con ChatGPT. Che ne sarà di noi? Diventeremo obsoleti? E in fondo, per il bene di noi stessi e del Pianeta, non è giusto così?


l’autunno a noi

promette primavera

a voi l’inverno

Haiku dello stesso Adam, fattosi anche poeta

Fiorenza Fortini

Fiorenza Fortini nasce e attecchisce tra le colline abruzzesi. Nella vita è un’insegnante di italiano e storia (o latino e greco, dipende dagli anni). Scrive racconti sulla pagina Instagram @ritrattiscartati e sogna di pubblicare il grande romanzo generazionale italiano. Ama la fantascienza, lo smalto semipermanente, i podcast e le storie in cui alla fine il protagonista muore.

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