L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello – Oliver Sacks

Rileggere e recensire un classico, talmente classico da comparire nel poster 100 book bucket list che troneggia in camera mia (una di quelle operazioni-angoscia in cui quando finisci il classico di turno devi grattare la casella corrispondente, sai già che non le gratterai mai tutte e vivi perseguitato dai sensi di colpa ogni volta che incominci un libro che non è presente sulla lista) dicevo, recensire un classico, è un compito azzardato, macchinoso e sostanzialmente inutile: l’ideale se sei una tipa ansiosa e terrorizzata dal giudizio altrui.

Dovendo scegliere cosa recensire tra le mie letture recenti, però, mi sono resa conto di desiderare soprattutto di parlare de L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello.

Mi ero già costretta a leggerlo alle medie senza capirci granché, come spesso accade quando si è degli adolescenti boriosi in cerca di motivi per sentirsi migliori dei bulli che li tormentano ad ogni cambio dell’ora. Mi era però rimasta addosso una vaga impressione di “poeticità e delicatezza”, che ho saputo definire meglio in occasione della rilettura.

Oliver Sacks è stato un neurologo, reso famoso dai suoi studi su pazienti sopravvissuti all’epidemia di encefalite letargica del 1920 (Neil Gaiman ci avrebbe poi spiegato che era stata causata dal vigliacco rapimento di Dream – Sandman). Ha provato a curarli con una medicina nuova, l’L-Dopa, che funzionava nel breve periodo ma la cui efficacia regrediva nel tempo. Ha scritto un bel saggio sul tema (Risvegli, del 1973, ne hanno tratto anche un bel film con Robin Williams e Robert De Niro) che contiene già molte delle riflessioni che caratterizzeranno il Sacks saggista: la centralità del rapporto tra medico e paziente, il ruolo centrale del malato nel mitigare i sintomi della propria patologia e condizionarne almeno in parte l’evoluzione, e soprattutto l’insopprimibile curiosità.

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello prende in esame 24 pazienti affetti da malattie neurologiche di grave entità, che sono stati pazienti di Sacks o che Sacks ha avuto modo di osservare. La prima parte è dedicata ai pazienti che hanno subito “perdite”, ossia che hanno dei veri e propri deficit cognitivi. Interessante, nota Sacks, che la neurologia di ieri (ma anche di oggi) interpreti ogni patologia come una “mancanza” di qualcosa. L’individuo è visto come “incompleto”, la sua “anormalità” è dettata da un difetto che non gli consente di essere “come gli altri”. Egli si oppone fermamente a questa schematizzazione, e infatti le sezioni successive sono dedicate ai pazienti che hanno invece un “eccesso” (di energia, di eccitazione), a quelli che provano insopprimibili “trasporti” emotivi o che sono, più genericamente, “semplici”, sospesi in un’infinita infanzia.

Sarebbe troppo banale rilevare l’umanità di Sacks nell’approcciarsi ai pazienti, afflitti da ogni sorta di danno cerebrale, congenito o indotto dall’insorgere di una malattia. Quello che sorprende è invece la sua ricerca dell’umanità nel paziente. È come se in ogni malato Sacks lottasse per trovare la persona in fondo alla malattia, il vero sé del soggetto, rimasto intatto nonostante tutto, sepolto sotto alle crisi epilettiche, i tic nervosi, i deficit sensoriali, le difficoltà cognitive.

Sacks non parla mai di guarigione e raramente di terapie, e se lo fa è solo nell’ottica di scavare uno spiraglio dal quale l’identità del paziente possa nuovamente vedere la luce. La sua è più che altro una ricerca della chiave (il contatto con una persona cara, con la fede religiosa, con l’arte o la poesia) che schiuda l’individuo, lo spinga fuori dal suo eterno stato di “malato”; una condizione in cui l’uomo o la donna sembrino del tutto identici agli altri, pienamente “normali”, e finalmente la loro mente disgregata si ricomponga e ritrovi la propria interezza e coerenza.

La “poeticità e delicatezza” di quello che altrimenti sarebbe un qualunque saggio di neurologia, è proprio nel rilevare, nell’acuta e incessante osservazione dei pazienti, queste attitudini inalterate. Per Jimmie, che ha perso totalmente la memoria a breve termine ed è fermo al 1945, sono la preghiera e la contemplazione della natura, che sanno rimanergli attaccate addosso mentre tutto il resto si dissolve dopo pochi minuti; per José, con devastanti danni cerebrali dovuti a un’inguaribile epilessia, è il disegno, in cui con pochi tratti riesce ad esprimere tutta la sua vivacità, creatività, senso dell’umorismo; per Ray, affetto dalla sindrome di Tourette ,è la batteria, in cui i suoi “mille tic” possono trovare un senso compiuto nel virtuosismo jazz.

Così, leggere L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello può essere uno stimolo a ricercare la propria autenticità sotto al cumulo di ossessioni, velleità, paure e recriminazioni che ci abbiamo buttato sopra; e, mi scuserete l’ovvietà, un modo per stupirsi ancora di quanto imprevedibile e complessa sia la mente umana.

Fiorenza Fortini

Fiorenza Fortini nasce e attecchisce tra le colline abruzzesi. Nella vita è un’insegnante di italiano e storia (o latino e greco, dipende dagli anni). Scrive racconti sulla pagina Instagram @ritrattiscartati e sogna di pubblicare il grande romanzo generazionale italiano. Ama la fantascienza, lo smalto semipermanente, i podcast e le storie in cui alla fine il protagonista muore.

Questo articolo ha 2 commenti.

  1. Lino

    Leggere la recensione (impeccabile) mi ha rievocato le vicende narrate nel libro, che ho letto circa sei-sette anni fa. Il titolo è emblematico: fa sorridere di primo acchito, ma scoprendo poi che “è un fatto vero”, che dietro quello “scambio” ci sia una persona imprigionata nella sua patologia, fa anche riflettere.

    Da lettore, devo dire che è stata un’esperienza “cruda”: una sensazione perenne di tristezza mi permeava, sia che mi immedesimassi nel ruolo del medico, sia del paziente.

    Ho particolarmente apprezzato la nota sul film “Risvegli”, un vero capolavoro, nel quale De Niro interpreta il paziente affetto da patologia neurologica.

    Piccola curiosità: nel film “Un boss sotto stress” (sequel di “Terapia e pallottole”), De Niro si ritrova a interpretare per qualche scena il ruolo di “paziente catatonico”. Mi piace pensare che la precedente esperienza in “Risvegli” gli abbia facilitato il re-interpretare quel ruolo.

  2. Fiorenza Panaccio

    Grazie per queste osservazioni. Ho aspettato di aver guardato “Un boss sotto stress” prima di rispondere (carino!), e sono d’accordo sul fatto che probabilmente il ruolo già interpretato lo ha facilitato. Concordo anche sulla sensazione di smarrimento che mi ha preso, nell’immaginare che si possa davvero avere una testa che funziona così, e che questa sia (per i pazienti) l’unica “normalità” possibile.

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