L’ultimo raccolto – Paolo Zardi : recensione

Con L’ultimo raccolto son tornato alla voracità di lettura che, da un po’, mi mancava. Paolo Zardi mi ha rapito già con Antropometria e Il giorno che divenimmo umani. Avevo bisogno di un ritorno alle certezze, anche se con Zardi è difficile da dire; nella sua scrittura c’è un certo gusto per il grottesco della vita, la plausibilità delle assurde concatenazioni di eventi. Aggiungo che è l’autore che mi ha fatto scoprire la bellezza degli autori contemporanei (e non ringrazierò mai abbastanza Francesco Coscioni).

Il secondo volume di Tetra edizioni, nel suo bel formato quadrato, è di una novantina di pagine – duro e completo come i romanzi brevi di tradizione russa. Ogni personaggio è completo, si muove nella sua tridimensionalità, la rete dei rapporti è così naturale da far figurare tutte le scene come se si fosse lì davanti. A volte mi sentivo troppo invasivo, come se avessi ascoltato troppo della coppia protagonista nella prima metà del libro. “Scusate, io vado, casomai chiudo la porta”, ma sono rimasto lì dietro a origliare.

“In realtà nessuno sapeva niente. C’erano vaghi indizi e interpretazioni arbitrarie, pochissime prove, errori di trascrizione. Ciascuno tentava di ricostruire il mondo a partire da quel niente che credeva di aver capito ma sbagliavano tutti, per eccesso o per difetto, con buona e cattiva fede. L’unica cosa certa, in tutta questa storia, è che alla fine qualcuno morirà, e quando succederà un lettore attento potrà dire che quella morte non era del tutto inaspettata.”

E qui siamo ancora alla venticinquesima pagina. Rimaniamo incollati al libro e conosciamo Mario Rossi, un fisico che non riuscì a sfruttare le buone idee giovanili e caduto in una carriera stagnante. Lo stesso è per il rapporto con la moglie Rachele; dopo aver palesato che “sa tutto”, diventa evidente l’impossibilità di ricucire. O forse no? Le vie della quotidianità subiscono così tanti stravolgimenti, capitolo dopo capitolo (sette, per l’esattezza), che prevedere anche solo una piccola percentuale del futuro diventa assai poco probabile.

La seconda parte del lungo racconto si svolge a Copenaghen, perché è sempre il momento di una svolta. Del resto, nell’ultimo periodo il nostro Mario Rossi non se la passava benissimo:

“Le mutande… non le lavava: le girava. Da giovane era convinto che sarebbe diventato un astro della fisica; poi, nel giro di qualche anno, si era ricreduto, rassegnandosi alla propria mediocrità; ora, però, poteva dire di puzzare come Alan Turing – di ascelle, di piedi, di culi non lavati. Finalmente assomigliava a un genio.”

L’ironia di Paolo Zardi emerge bene anche ne L’ultimo raccolto, e ci accompagna verso i meandri della mente (sempre più complessa) con una leggerezza quasi necessaria. In caso contrario finiremmo per giudicare con occhio troppo critico le scelte che, nel bene o nel male, troviamo davanti agli occhi.

Dal campo scientifico (von Humboldt, Bohr) all’umanistico (da Catullo a Orazio), i riferimenti sono sempre interessanti e creano un tessuto perfetto per le storie che si legano.

Il finale, nonostante lo spoiler dello stesso Zardi, sorprende: il fulcro, infatti, non è quello. Non svelo nulla, vi invito però a leggerlo. QUI trovate poi un’intervista davvero interessante di Diego Alligatore!

Aniello Di Maio

Aniello di Maio è nato l’ultima volta a Castellammare di Stabia (NA), ma si definisce pescarese per evitare lo spirito di competizione. Allevato da un diplomatico presso l’ambasciata spagnola, ha acquistato un veloce eloquio, così veloce che è meglio leggerlo che ascoltarlo. Ha amato così tanto studiare Lettere moderne che ha trascorso almeno il doppio degli anni fuori corso, un po’per l’ansia dilagante, un po’perché non riesce ad essere serio a lungo. Neanche in quattro righe di biografia.

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