Il vero genere horror non fa solo paura, non si limita a spaventare. Si insinua nelle più piccole fessure dell’anima e lì rimane attaccato, aggrappato all’angoscia che genera. È più sottile, più subdolo, fa leva sulla quotidianità, sulle azioni comuni, di tutti i giorni, straniandole. Inquieta, disturba, sconcerta. Si ancora a ricordi passati e modifica quelli futuri.
Rimane dentro, come il freddo e, se è davvero efficace, non se ne va.
Questo è quello che accade leggendo L’ospite e altri racconti di Amparo Dávila (Safarà Editore, 2020); ed è questo il motivo per cui non riesco più a scendere le scale del mio palazzo senza un lieve ma costante senso di inquietudine.
Famosissima nella sua madre patria, il Messico, Amparo Dávila ha avuto bisogno di morire per essere tradotta – e consacrata – nel Bel Paese. Nei suoi novantadue anni di vita (nata nel 1928, è scomparsa proprio nel 2020), ha conosciuto oblio e celebrità, premi e disdegno: «Due volte nella polvere/ Due volte sull’altar.»
E due sono anche i tratti caratteristici della sua opera, troppo evidenti per non essere notati, che in L’Ospite trovano il loro apice.
Il primo è fare leva sulla quotidianità: ognuno dei dodici racconti inizia in un ambiente domestico e familiare. Case, amici, genitori, figli. Tutto appare perfettamente normale fin quando il mistero non inizia a penetrare. È fitto come la nebbia di inizio novembre, fra le parole e le pagine, rendendo tutto opaco, fosco. Nulla è mai lasciato al caso ma, allo stesso tempo, nulla è mai specificato. La materia si fa informe e inconsistente e l’oscurità regna sovrana. Dávila rende i suoi lettori ciechi e impotenti di fronte al terrore che si fa spazio nell’aria densa e torbida dei suoi racconti.
E così non sapremo mai né chi sia né cosa stia facendo il protagonista di Frammenti di un diario, intento nella sua ascesa verso il massimo grado del dolore. Lo stesso accade con le misteriose e inquietanti presenze di L’ospite e La cella.
La massima espressione del talento di Amparo Dávila si svela nella straordinaria capacità di raccontare e descrivere fatti, persone o cose totalmente irreali con una naturalezza tale da renderli non solo reali, ma addirittura affascinanti. Realtà e finzione si mischiano, così come pazzia e sanità mentale; al punto che non capiremo mai se le protagoniste di Musica concreta, La colazione, L’ultima estate e Tina Reyes siano vittime o meno di terribili allucinazioni. Non riusciremo mai a comprendere quali creature si celino dietro i terribili Moisés e Gaspar, e né chi o cosa sia Óscar e di cosa soffra.
I dettagli sono sporadici e indecifrabili, le conclusioni brevi e micidiali.
Dávila sfrutta tutto quanto in suo potere per lasciare che i suoi lettori si immedesimino alla perfezione con gli sfortunati protagonisti, per renderli poi spettatori immobili, non in grado di afferrare quello spiraglio di luce che si intravede, finché non si vede più niente. Il buio e il nulla appaiono, inglobando tutto e non c’è più mistero, non c’è più curiosità. L’oscurità si avvicina e porta con sé una fine inevitabile con cui noi, irrimediabilmente, ci troviamo d’accordo.
Tutto è esattamente come deve essere e come Dávila vuole che sia.
Il secondo marchio dell’impronta della scrittrice messicana è la sua capacità di dare spazio alla denuncia sociale all’interno del filone della narrativa dell’orrore.
Ci vogliono genio e talento fuori dal comune per sfidare le caratteristiche di un genere così radicato nella storia della letteratura come ha fatto lei. È fin troppo facile ormai, con l’esempio di scrittori del calibro di Edgar Allan Poe, esasperare tratti comuni fino a renderli oscuri, ma provate ad affrontare temi importanti, in particolar modo per le donne, come menopausa, gravidanza, aborto, stalking, violenza domestica e sessuale all’interno di una tradizione non solo tendenzialmente maschilista ma anche dai confini ben definiti e rigidi.
L’ospite e altri racconti, e tutta l’opera di Dávila in generale, è una rivoluzione: una donna fra gli uomini che entra – e non in punta di piedi – in un genere dove solo un’altra donna era riuscita prima di lei, in un Paese come il Messico dove il suo sesso non aveva altro spazio che le quattro mura di casa. E lo fa portando con sé la vita stessa delle donne come lei, infarcendola di dettagli minacciosi e conturbanti a tal punto da creare «una peculiare forma della narrativa dell’insolito, o del fantastico, che ha messo in difficoltà intere generazioni di critici.»
Una continua e incessante guerra al pregiudizio e alle discriminazioni sulle donne in quanto donne, madri, mogli e scrittrici.
Una lotta che, all’interno dei racconti che compongono il volume, trova il suo acme in Alta cucina, uno dei miei preferiti, altamente destabilizzante soprattutto per me, vegetariana.
Alta cucina narra, in tre pagine scarse, l’atrocità e la crudeltà della cottura di quelle che io penso fossero lumache (poiché, ovviamente, non è specificato ma solo fatto intendere in maniera molto velata). È un potentissimo esempio di come Amparo Dávila sia riuscita a mostrare l’orrore che si nasconde nella vita comune, delle casalinghe persino, con una semplicità disarmante, descrivendo un’azione diffusa e normale, come quella di cucinare delle lumache, come un infinito e terribile stillicidio.
Che dire di più, in rebus dubis plurimum est audacia.