Lolly Willowes – Sylvia Townsend Warner : recensione

Disclaimer: se stavate cercando un libro di stregoneria, siete giunti sulla pagina sbagliata.

Anche se la sinossi di Lolly Willowes o l’amoroso cacciatore di Sylvia Townsend Warner (Adelphi, 1990) recita: «questa è la storia arguta e arcana di una donna inglese molto per bene, che si sottrae educatamente all’ineluttabile connubio con l’altro sesso per diventare, invece, una strega», il romanzo non parla di streghe e stregoneria nel senso più consueto del termine. Tuttavia, questo breve passo – tratto dalla descrizione che ne fa John Updike – non potrebbe sintetizzare meglio la trama.

Lolly Willowes è effettivamente la storia di una donna, anzi di due.

All’inizio della narrazione ci viene presentata lei, la protagonista, una bambina che ha vissuto un’infanzia costellata di meravigliosi ricordi e dall’amore smisurato del padre. Salvo poi, alla morte di quest’ultimo, perdere la possibilità di scelta.

E da questo momento in poi vediamo il precoce deperimento della figura principale: non più Laura, ragazzina intraprendente e instancabile che sale sugli alberi e gioca nel fango. E nemmeno più Laura, la giovane adulta innamorata della sua grande villa in campagna – Lady Palace – e di tutto l’ambiente che la circonda: le vasche per le mele, i frutti della terra che nascono con cadenza stagionale, le erbe mediche che crescono ai bordi della strada con cui fare infusi e fermentazioni.

Improvvisamente, con il trasferimento a Londra, Laura diventò Lolly, zia Lolly, Lolly la cognata di Caroline, Lolly la sorella senza beni e senza protezione di Henry, Lolly il peso, qualcuno di cui ci si deve prendere cura.

Dentro di lei, tuttavia, ardeva ancora – flebile ma perseverante – la fiamma dell’amor proprio. Quella Lolly spostata da una parte all’altra come fosse un bambolotto e guardata con tenerezza mista a pena. Quella Lolly a cui bisognava assolutamente trovare marito per evitare che finisse sola e zitella, quella Lolly da qualche parte era ancora Laura.

Anche quel nomignolo, vezzeggiativo datole dalle nipotine, sembra quasi sminuire la figura di una donna che, invece, dentro di sé nascondeva una potenza iridescente.

Fra le pagine del romanzo il tempo scorre veloce. Poco prima della metà Lolly Willowes è già una donna inglese invecchiata e appesantita che fatica a trovare non solo il suo posto nel mondo, ma persino quello nella sua stessa famiglia. La spasmodica ricerca dell’identità che le era stata strappata, celando la privazione sotto la gonna del buon costume, porta la protagonista a provare a guadagnarsi una stanza tutta per sé (in questo caso una casa tutta per sé, ma il richiamo è troppo forte per non essere notato e legittima la citazione).

Lolly si trasferisce, va a vivere da sola a Great Mop. In una piccola casetta in campagna che riesce a mantenere con la sua rendita minima. Questo è solo il primo passo verso la rivendicazione della sua identità e la scoperta della sua vera natura.

Questo è il turning point dell’intera vicenda.

Lolly si sottrae alle convenzioni. Respinge l’idea di dover essere soggetta alle norme altrui, allontana ogni pretendente e rifiuta qualunque cosa non sia la sua propria volontà.

Così facendo si riappropria della sua identità e riconquista il suo nome: Lolly Willowes torna ad essere – finalmente – Laura.

Sceglie di vivere una vita propria, oltre le apparenze e gli schemi tradizionali. Cerca il suo appagamento, il suo scopo, non nel matrimonio ma nell’indipendenza.

Trova e ottiene la propria legittimazione.

E, lentamente, la vediamo rifiorire. A settembre, nel mese in cui tutto cade, in cui la natura che appassisce lascia presagire un vago sentore di morte imminente, Laura Willowes sancisce la sua rinascita.

Ma non come una semplice donna, bensì da strega.

Ed è un gatto, un normale gatto nero, banalissimo e abusato cliché, che si presta a nodo di congiunzione fra quello che aveva sempre creduto di essere e quello che invece è.

Fin da quando ne ha memoria, Laura aveva sempre avuto una segreta attrazione verso le tenebre e i paesaggi desolati ma non era mai riuscita a giungere al nesso, fin quando… la rivelazione.

Il delirio, di cui nessuno saprebbe indicare con esattezza l’inizio, termina con l’incontro con l’amoroso cacciatore: «una specie di cavaliere nero che soccorre gentildonne decadute», Satana.

Dal loro dialogo nasce la descrizione più bella che i miei – molto presto astigmatici – occhi abbiano mai letto. Ricordate quando, all’inizio, vi ho detto che la stregoneria non era qui utilizzata da Sylvia Townsend Warner nel modo più consueto? Vorrei però lasciare che sia Laura ad esprimersi, giusto per non farle anche io il torto che ha subito tutta la vita:

«È vero che si può attizzare il fuoco con un candelotto di dinamite senza che succeda nulla? […] Comunque, se non è vero per la dinamite, lo è per le donne. Ma le donne lo sanno di essere dinamite, e non vedono l’ora che si verifichi l’esplosione che renda loro giustizia. […] Alle altre però – e sono tante – cosa resta se non la stregoneria? Anche se gli altri continuano a considerarle quelle di sempre e vanno avanti ad usarle per attizzare il fuoco, le donne sanno in cuor loro quanto sono pericolose, inestimabili, straordinarie.»

E ancora:

«Ecco perché diventiamo streghe: per mostrare il nostro disprezzo per chi finge che la vita sia un luogo sicuro, per soddisfare la nostra passione per l’avventura. […] È proprio per sfuggire a tutto questo… per avere una vita propria e non un’esistenza elemosinata da altri.»

Ed ecco, il capolavoro.

La stregoneria usata come strumento di emancipazione, come simbolo e valore del potere femminile. Un punto di vista diverso, innovativo, incastonato nelle meravigliose, studiate e calibrate parole del monologo finale.

Un climax inaspettato che si conclude con la scelta consapevole di un nuovo padrone ma anche di una nuova consapevolezza. Quella di avere tutto ciò di cui si ha bisogno a propria disposizione: la propria volontà e la possibilità di esercitarla.

Ci sono quei libri che tutti hanno letto e quei libri che tutti dovrebbero leggere.

Ecco, Lolly Willowes è uno di questi.

Eleonora Pellegrini

Nata a Roma nel 1991, la piccola Eleonora assimila da subito gli eventi di quell’anno per diventare una sognatrice realista da grande. Assetata di libri, che divora però con una lentezza snervante, ha un marito pubblico e un amante privato come ogni donna di potere: il primo è la Letteratura Angloamericana, a cui è legata dal filo rosso del destino; il secondo è il Giappone, la sua cultura e la sua letteratura. Prolissa e fredda come un Calippo al lime, è capace di emozionare chi legge i suoi scritti come la calza della Befana Kinder emoziona tutti i venticinquenni ogni 6 gennaio.

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