L’idiota – Elif Batuman : recensione

«È una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un buon patrimonio debba necessariamente cercare una moglie». Così inizia Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen; voi concedetemi una licenza poetica e permettetemi di cominciare questa recensione con una semi-citazione: “È una verità universalmente riconosciuta che chiunque si accinga a studiare letteratura debba necessariamente cercare un senso”.

L’idiota di Elif Batuman (Einaudi, 2017) era il libro per me. Non solo perché la protagonista, Selin, mi somiglia molto, nelle scelte e nel percorso; non solo perché anche io sono un’idiota (e alla fine di questa lettura forse penserete – o capirete – di esserlo anche voi, ma non nel senso più comune del termine), ma soprattutto perché, a quasi due anni dalla prima lettura, capisco di esserlo ancora di più, giacché solo ora ne ho capito il senso.

L’idiota è la storia di Selin, americana di origini turche (proprio come la penna che l’ha creata, Elif Batuman), matricola di Harvard “di diciotto anni e con grandi aspettative”. Una di quelle ragazze innamorate della letteratura, sognatrici o illuse, che pensano di avere sempre in tasca una risposta, di essere sicure e decise sul da farsi, appassionate, incantate e con il futuro ai loro piedi. Una di quelle ragazze che pensa di avere delle certezze.

Che strana parola è questa, significa “ciò che è certo” ma essa stessa è di per sé relativa.

E Selin se ne rende conto bene, dopo 415 pagine e un anno intero passato a studiare linguistica.

“È una verità universalmente riconosciuta che chiunque si accinga a studiare letteratura debba necessariamente cercare un senso” dicevamo, proprio perché, e ve lo dico per esperienza personale, chi si innamora della letteratura, dei libri e delle loro parole, ad un certo punto comincia a volere di più e desidera studiare e conoscere la lingua, le sue regole, le sue funzioni, il modo in cui instaura rapporti con il mondo e con la realtà.

«Le persone pensano in modo diverso nelle diverse lingue del mondo?» Si chiede ad un certo punto la protagonista.

Ed è qui che entra in gioco la linguistica, la branca delle scienze umane che studia come e quanto la lingua sia un patto d’intesa sul mondo e sul modo che hanno gli uomini di vedere le cose.

Chi la studia, poi, arriva però a capire che non è vero, che la lingua non è solo una banale convenzione fra suono e oggetto ma che in sé porta le voci altrui, di chi l’ha già usata, di chi ha già attribuito prima un significato a un significante, di chi ha una storia, di un’epoca storica, di una regione del mondo e di una cultura.

E mi perdonino Bachtin (mio grande amore) e De Saussure, ma scelgo di citare Noam Chomsky e di dire che la lingua è “la proprietà nucleare dell’essere umano”; “la cosa che ci fa umani” per usare le parole di un’altra (socio)linguista che ammiro: Vera Gheno.

E questo è il primo e il più grande errore di Selin: credere ai libri e alle loro parole.

L’idiota è un romanzo di formazione che parla della perdita delle certezze, di quando intraprendi un percorso – mossə proprio da quelle caduche convinzioni – e te ne penti. Parla di pentirsi, di sbagliare e della possibilità di cambiare se si ha tempo; e il tempo, credetemi, si deve trovare.

Selin cerca risposte nei suoi romanzi: «Volevo sapere cosa significavano veramente i libri. […] Era convinta, e io con lei, che al centro di ogni storia ci fosse un significato ben preciso. Uno poteva coglierlo o perderselo completamente.»

Vorrebbe che i sogni e le illusioni di carta fossero reali, o almeno avessero un riscontro nella realtà. E invece man mano, una per una, tutte le sue convinzioni e i suoi inganni cadono.

Durante il primo anno universitario capisce che non tutti sono mossi da passione e intenti puri, non è tutto oro quel che luccica, e le sue aspettative altissime e presuntuose sbattono contro la porta della vita vera.

Scopre che comunicare (soprattutto per iscritto, nel suo lungo scambio di e-mail con la prima cotta, Ivan) esige un compromesso, spesso un incontro, non solo parole lanciate nel cavo ethernet ma sguardi, risate, odori, presenze. E che, a volte, nemmeno quello basta.

Parte per un viaggio nell’altra metà del mondo, in Ungheria, e si chiede «come si faceva a separare l’identità di una persona dal suo luogo di provenienza» aprendo una voragine sull’ibridismo, il suo, della sua intera famiglia, della sua amica Svetlana e perfino di Ivan.

Alla fine non ha quasi più voglia di nulla e aspetta che qualcuno le indichi “cosa si doveva fare”.

Cita Dostoevskij, Poe, Thoreau senza mai però capire il mistero che li percorre e che attraversa tutte le pagine scritte dall’era dei tempi fino ad ora.

Il percorso di formazione di Selin si chiude con una riflessione amara, a cavallo fra il 1995 e il 1996 e alla fine del suo primo anno ad Harvard:

«Quando in autunno tornai all’università cambiai piano di studi lasciando linguistica, e non seguii più corsi di filosofia o psicologia del linguaggio. Mi avevano deluso. Non avevo imparato quello che volevo sapere sul funzionamento del linguaggio. Non avevo imparato proprio niente.»

La copertina del romanzo, sia nella versione originale che nella traduzione italiana di Einaudi, è una pietra dura, fissa e immobile, su uno sfondo rosa pallido. Quando anche le immagini possono parlare.

Non sono proprio la persona adatta, Selin, anche io sono delusa e credo di essere un’idiota che non ha imparato proprio niente, ma lascio a te e a qualunque poverə sfortunatə che incapperà in questa mia recensione parole prese in prestito da un altro grande scrittore che, in tempi non sospetti, mi ha fatto capire – forse – che davvero non avevo mai capito niente:

«Giorni solo di questo, a sera a casa schiaccio pomodori crudi e origano sopra uno scolo di pasta e sgranocchio spicchi d’aglio davanti a un libro russo. Mi toglie peso dal corpo.

Questo devono fare i libri, portare una persona a non farsi portare da lei, scaricarle il giorno dalla schiena, non aggiungere i propri grammi di carta alle sue vertebre.»

E, ora che lo abbiamo imparato, buona fortuna a tutti gli idioti!

Eleonora Pellegrini

Nata a Roma nel 1991, la piccola Eleonora assimila da subito gli eventi di quell’anno per diventare una sognatrice realista da grande. Assetata di libri, che divora però con una lentezza snervante, ha un marito pubblico e un amante privato come ogni donna di potere: il primo è la Letteratura Angloamericana, a cui è legata dal filo rosso del destino; il secondo è il Giappone, la sua cultura e la sua letteratura. Prolissa e fredda come un Calippo al lime, è capace di emozionare chi legge i suoi scritti come la calza della Befana Kinder emoziona tutti i venticinquenni ogni 6 gennaio.

Lascia un commento