Fedor Dostoevskij scrive Le notti bianche nel 1848, a 27 anni, eppure è uno di quei testi immortali che solitamente si scrivono nella seconda metà della propria vita. A posteriori torna tutto, visto che morì a sessant’anni per un enfisema e pubblicò i suoi capolavori a partire dal 1866.
È un racconto lungo o romanzo breve che porta subito il lettore nei ragionamenti del protagonista, fin dal meraviglioso incipit.
Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che forse può esserci soltanto quando siamo giovani, caro lettore. Il cielo era talmente pieno di stelle e luminoso che a vederlo veniva da chiedersi: com’è possibile che sotto a un simile cielo vivano tante persone colleriche e capricciose? Anche questa domanda è da giovani, ma fa che Dio la suggerisca spesso all’animo vostro!
La voce narrante è quella del Sognatore, perché è proprio la caratteristica principale di quest’uomo che non conosce persone a Pietroburgo, eppure è un sodale della città. Saluta palazzi e casine, addirittura sente la vergogna di una casa ritinteggiata in modo quasi osceno. La sensibilità del protagonista è estrema, e forse per questo è molto solo. Le notti bianche sembrano il suo tempo ideale: è notte, il momento più vicino al suo modo di ragionare, ma c’è un costante crepuscolo che aggiunge magia visiva a quella dei suoi pensieri.
La prima volta che ho letto quest’opera non potevo conoscere la bellezza di questo fenomeno così particolare; le immagini dell’internétt erano poco chiare e cercare foto su Google non era scontato. Già nel 2010 invece ho potuto constatare il fascino della situazione. Oggi, con l’alta definizione, consiglio a tutti di ammirare le tantissime immagini presenti sul web, e allora capirete il motivo per cui voglio andare in Russia assolutamente. Sì, anche per la Prospettiva Nevskij e l’Ermitage, ma farò in modo di capitarci durante le notti bianche. Per la cronaca: tra fine maggio e inizio luglio.
Dostoevskij usa quattro notti e un mattino per narrare al lettore di un innamoramento, di due innamoramenti, di una persona che torna nella solitudine della propria stanza. Ci sono i più bei monologhi d’amore che io abbia letto, e se preferite Romeo e Giulietta vi prego di non leggere più le mie recensioni. Per parlare del nostro sentimento più complesso e assurdo ci sono infiniti modi, ma tra un inglese e un russo propenderò sempre verso il secondo.
Un anglofono metterebbe troppo risentimento in ciò che accade nell’epilogo. Fermatevi qui, se non avete già letto Le notti bianche. Loro hanno inventato la parola friendzone, che quasi colpevolizza la donna che sceglie “l’altro”. Nel testo ci sono proprio quelle frasi che avvampano di rabbia, solitamente, l’innamorato: “Perché lui non è come te?” E sappiate che la mia educazione sentimentale deriva da questo piccolo libro.
Ah, Dostoevskij… poi uno si chiede perché era così difficile approcciare con le ragazze, alle superiori. Gli altri leggevano Bukowski, facile per loro! Però ne è valsa la pena. Del resto, anche Paolo Nori lo dice: Dostoevskij apre certe ferite, e dopo tanti anni sanguina ancora.
Ciò che in occidente riassumono in una parola – peraltro abbastanza fastidiosa – è qui espressa in poco più di sessanta pagine, e la lettera finale di Nasten’ka racchiude tutta l’incoerenza dei sentimenti e la loro preziosità, l’illogicità, ma anche il loro essere necessari.
Forse qualcuno tra voi potrebbe pensare che un libro del genere potrebbe non piacere, ma non fermatevi alle apparenze. In ogni caso leggerete un capolavoro, scritto divinamente. Lo dice anche lui!
«Sentite: voi raccontate magnificamente, ma non potreste parlare in maniera un po’meno solenne? Altrimenti sembra che stiate leggendo un libro.»
«Nasten’ka!,» risposi io con tono autorevole e severo, trattenendomi a stento dalle risate, «cara Nasten’ka, so di raccontare magnificamente e mi rincresce, ma non sono capace di fare altrimenti.»