Alessandro Moscè introduce i lettori in una storia personale che ne racchiude tante altre: Le case dai tetti rossi ci porta nel manicomio di Ancona (il titolo fa riferimento alla struttura); qui scopriamo vite immaginarie che nascono dalla realtà. Nello stabile di via Cristoforo Colombo ci sono barboni, persone con vissuti difficili, beoni sfortunati, persone limitate da handicap fisici o mentali più o meno gravi; in generale, individui che per un motivo o per un altro erano difficilmente inquadrati nella società.
Le persone che affollavano il luogo, oggi, avrebbero vissuto normalmente tra noi. Le superstizioni dell’epoca – non così tanto lontana – finivano per allontanare questi individui dalla società, quasi come se fosse possibile trasferire certe condizioni agli altri. Quelle case dai tetti rossi diventano quindi l’ultimo drappo di umanità, dove è possibile riportare amore a chi se l’è visto negato.
“Nel lavoro Arduino non ha mai avuto la tendenza a isolarsi. Non si sentiva una vittima che meritava il castigo in manicomio. Mantenne un carattere quieto, docile, ma ha visto con i suoi occhi la follia, la disperazione, lo scoramento di poveri innocenti. Ha sempre considerato i malati dei sopravvissuti nella sventura. Non ha mai accettato il loro istinto peggiore e pensava che avessero bisogno di attenzioni, di amore. Il voler bene era il salvavita, nonostante molti dei ricoverati non pretendevano alcunché, come fossero in guerra e dovessero sottostare, in trincea, ai comandi di un superiore, incuranti anche della morte.”
Arduino è il vero e proprio collante del racconto, giardiniere/tuttofare, e ci si affeziona a lui fin da questa prima descrizione. Il figlio, Luca, diventerà psichiatra. Il giovane era amico della voce narrante, appunto l’autore Alessandro Moscè, e il reincontrarsi dei due nell’epilogo, dopo aver letto le tante storie del manicomio, è di una bella dolcezza nostalgica.
I racconti dell’istituto si alternano con Moscè che ricorda, guardando la struttura ormai vuota, i bei momenti legati ai nonni e la dimensione del quartiere, dove in ogni caso diventava centrale l’ex manicomio. Era un luogo molto moderno, grazie al personale. Non ci troviamo di fronte a storie da Report, anzi. Il primario è in contatto con Franco Basaglia, proprio lo psichiatra che ispirò la legge omonima del 1978 con cui cambiò radicalmente il destino di tanti dimenticati.
“In manicomio l’arte aiutava i pazienti a sentirsi meglio. Dipingendo si assegnavano un ruolo, si fortificavano, si proteggevano dalla corrosione dell’anima. Avevano bisogno di riconoscimento, approvazione. Animavano un mondo che nel segno lasciava il mistero della loro stessa condizione di persone diverse, irregolari. Con un graffito, un ritratto elementare, un disegno astratto, uscivano dalla loro prigionia. Mettevano ordine nella mente, come faceva Arduino quando tagliava un cespuglio facendolo assomigliare a un essere umano.”
La terapia diventa centrale, le anime si riprendono, i corpi trovano nuovi nutrimenti e la salute mentale sembra migliorare. Le case dai tetti rossi è un libro di ricordi e di storie incrociate, ma soprattutto è il racconto di una speranza che riuscì a trovare il proprio compimento.