Strana storia, quella de Le braci. Pubblicato per la prima volta nel 1942 in Ungheria, fu largamente ignorato da pubblico e critica. Tradotto nel 1950 in tedesco, riscosse invece un inaspettato ed enorme successo. Fu poi dimenticato per quarant’anni, prima di essere nuovamente pubblicato in Ungheria nei primi anni Novanta fino ad arrivare da noi addirittura solo nel 1998, edito da Adelphi. Paradossalmente l’ultimo paese europeo a scoprire Sándor Márai, il suo autore, fu proprio quello in cui Márai visse per più di dodici anni, esule a Salerno in totale anonimato.
Per finire, negli ultimi anni si è ammantato di un’aura sacrale, specie in Italia, grazie soprattutto alla fama di capolavoro che si è guadagnato tra booktoker, bookstagrammer, booktuber, insomma, gente che parla di libri su internet. In quanto parte della affollata categoria, non potevo esimermi dal dirne due parole anch’io.
Se la storia de Le braci è bizzarra, quella che Le braci racconta è invece la più classica possibile, avendo dentro di sé, in poche pagine, tutto ciò che rende un uomo tale: amicizia, amore, rabbia, vendetta, morte.
La trama è nota: Henrik (ma per gran parte del romanzo è solo “il generale”) è un anziano nobiluomo che, vedovo da decenni, aspetta la morte in un cupo castello dei Carpazi. L’attesa è però tutt’altro che il sereno riposo di un vecchio dopo gli affanni di una vita, perché da quarantun anni aspetta delle risposte. Finalmente, in una notte d’agosto, l’unico che può dargliele giunge a fargli visita. È Konrad, il suo miglior amico sin dall’infanzia, con cui ha condiviso tutto per più di vent’anni. I loro rapporti si sono bruscamente interrotti, Konrad è partito per i Tropici e non ha fatto più ritorno, fino a quella notte. Bisogna aspettare l’alba per scoprire perché sia successo, e soprattutto cos’è che il generale deve chiedergli.
Credo che Le braci debba il suo successo social anche (soprattutto?) all’essere una miniera di riflessioni sull’esistenza, che condensano in poche righe le verità che Henrik si è dato nei quarant’anni che ha trascorso in solitudine, ma che sono spendibili anche estrapolate dal contesto.
Alle domande più importanti si finisce sempre per rispondere con l’intera esistenza.
Se qualcuno si rifugia con tanta veemenza nella sincerità, significa che ha paura: paura di ritrovarsi un giorno con la vita carica di segreti inconfessabili.
Chiunque sopravviva a qualcuno commette un tradimento.
E la mia preferita: L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore.
Io però l’ho amato soprattutto perché è un romanzo in cui non succede assolutamente niente tranne la vita stessa. Davanti a un fuoco sempre più tenue, la banalità del ferirsi, del tradire, dell’essere vigliacchi e spaventati e soli senza alcun rimedio. Ma allo stesso tempo la consolazione che non si sarebbe potuto fare altrimenti, che, come nelle tragedie greche, si è fatto un gran parlare e un gran scalciare solo per avvicinarsi un po’ di più al proprio destino.
Nonostante sia molto breve, Le braci richiede tempo e attenzione, e dà ben poca soddisfazione. La tensione sale progressivamente verso un finale che si spererebbe risolutorio, e che invece non lo è affatto. Ma, anche in questo caso, a pensarci bene, lo si poteva immaginare sin dall’inizio.
Di Márai mi sentirei di consigliare, oltre a Il macellaio, il meno conosciuto La donna giusta, che come Le braci è costituito soprattutto da monologhi e parla dell’animo umano. Ha nel complesso un tono più crudo, e forse per questo al suo autore piaceva di più del suo grande classico, del quale commentò come lo trovasse “troppo romantico”.