L’acqua del lago non è mai dolce è il libro di Giulia Caminito vincitore della 59esima edizione del premio Campiello.
E come la protagonista di questa storia, anch’io abito sul lago. Beh, sulle sponde di un lago. Il mio è un lago salmastro, collegato al mare attraverso un canale.
Per questo, quando ho letto il titolo: “L’acqua del lago non è mai dolce” non ci ho trovato niente di strano. È una vita che me lo sento ripetere.
Se si applica però un certo peso alla lettura e qualche reminiscenza di geografia, non sarà difficile ricordare che non tutti i laghi sono salmastri come, ad esempio, quelli di Lesina e di Varano. Ma che alcuni sono d’acqua dolce, come quelli di Bracciano e di Martignano, dove è ambientata la storia.
Questo romanzo dal titolo accattivante, dall’ambientazione accattivante, è basato anche sull’importanza delle parole, sul loro peso; e la prima parola di cui voglio parlare è Gaia.
Gaia, la protagonista, il cui nome, lo notiamo subito, non ci viene rivelato se non verso la fine.
Gaia, la cui personalità si oppone con forza a questo nome, che arriverà ad un certo punto della vita a vestirsi solo di nero, come espressione di sé stessa, e a non capire perché di gaio si ostinasse a restare solo il rosso dei suoi capelli.
La nostra protagonista è così simile e così diversa da sua madre, Antonia. Antonia la rossa, perché è su queste due donne che si regge la storia. Sui rapporti famigliari, sulle spalle di Antonia che continuerebbe a spingere la narrazione a forza di braccia se questa si fermasse.
Tralasciando il fatto che grazie alla similitudine data dai territori mi è subito riuscito di percepire come veritiera la lettura, è facile immedesimarsi nei personaggi. Mettersi nei loro panni, comprendere le loro emozioni, sì, anche la rabbia, che troppo spesso non ammettiamo, anche se mi auguro non esploda come quella della protagonista.
La nostra voce narrante è Gaia che sin da subito ci presenta sua madre come una donna forte e combattiva. Una donna che non si arrende e che con quattro figli ed un marito invalido porta avanti la sua famiglia, contro la povertà e il degrado dei quartieri poveri. Con la sua presenza ingombrante e protettiva riesce a spingere la figlia fino all’università.
Ed è proprio questa la grande differenza tra le due, una spinge, sprona, e l’altra si lascia trascinare. Sin da quando era bambina c’è sempre stato qualcuno che l’ha aiutata a combattere le sue battaglie, sua madre, suo fratello Mariano. Gaia si spezza, tra la personalità ubbidiente e remissiva che è abituata ad avere a casa e le numerose maschere che indossa all’esterno.
Va in frantumi come la superficie specchiata del lago quando ci si tuffa, rivelando il fondo fangoso.
Quella de L’acqua del lago non è mai dolce è una storia complicata, una storia che non mi aspettavo. Triste, se vogliamo, una storia vera piena di ingiustizie, di difficoltà, di salite irte per raggiungere la felicità e di altrettante più semplici discese verso la tristezza. Un po’ come la geografia del comune di Anguillara Sabazia, dove nella chiesa del paese alto, con fatica, ci si sposa e in una più modesta e facilmente raggiungibile vengono celebrati i funerali.
Un’altra delle parole importanti all’interno del romanzo è coraggio. Quello di Gaia che scoprirà di riuscire a scorgere la propria felicità solo nelle acque del lago.
Quel lago che le ha dato e tolto tanto. In quel paesino a cui lei ha mostrato la sua parte peggiore, proprio su quelle sponde dove un’altra donna, Iris, aveva visto qualcosa di buono in lei.
Perché ognuno di noi ha bisogno di sapere che esiste almeno una persona che guardandoci abbia intravisto la bellezza in noi.
Come quando scrutando il fondale scuro non ti arrendi all’idea che sotto al molo ci sia il presepe subacqueo, anche quando tutti ti dicono che non c’è, anche quando stai cominciando a perdere la speranza.