La luna e i falò – Cesare Pavese

Quando leggi La luna e i falò di Cesare Pavese piangi due volte. La prima volta che lo leggi piangi per la bellezza, la seconda per la tristezza.

Tre volte, se la prima volta lo state leggendo per la scuola!

Se siete cresciuti in posto in cui campi di grano e vigneti non sono per voi parole desuete, sarà più facile coglierne la grande bellezza descrittiva. Se invece siete cresciuti in mezzo al cemento, beh, allora non c’è niente da fare! Scherzo, allora dovrete provare ad essere voi i primi fiori a nascervi in mezzo.

Questa è una recensione che dovrebbe darvi una mano a scuola. Ma La luna e i falò è intriso di un sentimento che la maggior parte di voi non ha ancora mai provato; banalmente detto, la nostalgia.

La nostalgia di casa, del luogo al quale si appartiene. Proprio come Anguilla, il protagonista del romanzo, al tempo della cascina della Mora, siete nella fase della vita, l’adolescenza, in cui il desiderio di partire è più forte di quello di restare. Probabilmente ora non vi manca casa. Odiate il percorso che fate ogni giorno per arrivare a scuola, le vicine impiccione e tutti coloro i quali vi sembrano un po’ troppo invadenti o curiosi all’interno del quartiere.

Forse un giorno, molto più avanti negli anni, riuscirete a sentire la mancanza di tanti piccoli luoghi della vostra giovinezza che nel frattempo saranno cambiati, della vicina, del panettiere, dell’edicolante sotto casa che non ci saranno più. Sostituiti da nuovi inquilini e nuove gestioni, nuovi negozi; e chi resterà a ricordarsi di voi?

Un po’ come a Pavese, tornato a Santo Stefano Belbo dopo anni di supplenze e di precariato per condividere con le persone a lui care il successo finale, la fama, per non trovarci che pochi a ricordarsi di lui.

Ed è anche da queste esperienze che nasce La luna e i falò e il tema centrale del nostos, del ritorno.

Ricordatevi bene questa parola perché ritornerà spesso in letteratura. La parola greca nostos (νόστος) significa ritorno a casa ed è per questo che i Νόστοι (nostoi) sono i ritorni. I ritorni a casa degli eroi greci dopo la vittoria a Troia.

Anguilla, dopo essere stato in America, fa ritorno a Santo Stefano Belbo, e proprio come Ulisse spera di essere riconosciuto. Come succede all’interno della narrazione ad un altro personaggio, il sor Matteo. Quando, tornato dalla guerra, il cane abbaia per lui fin dal fischio del treno che lo riportava in paese.

Forse bisogna fare un piccolo passo indietro, mi sono lasciata trasportare. La luna e i falò e ambientato, ormai dovremmo averlo imparato, a Santo Stefano Belbo. Tratta la storia di Anguilla che, cresciuto tra le colline piemontesi, dopo il servizio militare, svolto a Genova, parte per la California. Sia per cercar fortuna, sia per cercare un posto a cui si senta legato. Per poi sperimentare quella terribile nostalgia di cui vi ho tanto parlato. In fondo il tema dell’appartenenza, ad un territorio, ad una comunità non è passato di moda. Continua a ritornare man mano che ogni generazione si appresta a sperimentarlo; per farvi un esempio più mondano: Persone Normali, o Normal people se avete visto la serie, dove un Connell trasferitosi a Dublino sperimenta proprio la nostalgia dai legami di casa e dalle comunità.

Attenzione, ho detto che Anguilla è cresciuto a Santo Stefano in Belbo, non che ci è nato. Perché Anguilla è un orfano, non conosce i suoi genitori e le loro origini. È stato adottato all’ospedale di Alessandria.

All’inizio del Novecento e durante il Fascismo non era raro che le famiglie più povere adottassero dei bambini orfani, perché il governo pagava loro cinque lire al mese e una volta cresciuti erano utili come forza lavoro.

Stiamo parlando di realtà rurali, di vita nelle campagne, ed Anguilla cresce in Gaminella con Padrino e Virgilia e le sorelle Giulia e Angiolina, imparando l’unico mestiere direttamente trasmissibile, quello dell’agricoltore.

In effetti la genesi stessa del romanzo non è lineare, ma pare suddivisa in tempi. Il tempo dell’infanzia a Gaminella, il tempo dell’adolescenza alla cascina della Mora. Per ogni fase della vita c’è un tempo, proprio come in agricoltura; nella quale non è l’orologio a scandire il tempo, ma le ore di sole e le stagioni. C’è una stagione per ogni cosa, per la semina, per la raccolta, per gli innesti, anche per uccidere il maiale.

Un’altra divisione temporale è quella tra passato e presente e viene resa evidente dai nomi: quelli appena citati della Gaminella e quelli della Mora (come il sor Matteo, le figlie Irene, Silvia e Santina ecc.) I personaggi del presente invece hanno sole abbreviazioni per nome, come ad esempio l’amico Nuto (da Benvenuto) o con degli appellativi come il parroco, la maestra e via dicendo.

All’interno dei nomi della Gaminella possiamo leggere un richiamo a Dante e alla Divina Commedia; Pavese stesso disse di aver avuto un’intuizione su cui poter costruire una modesta Divina Commedia. Ma al di là dei richiami dei nomi non abbiamo altri paragoni con il poeta dantesco.

Pavese però a modo suo ci fa scendere comunque in un inferno, ed è questa la bruttura, la tristezza di cui vi parlavo all’inizio. Nascosta dai ricordi, dai versi lirici dedicati al paesaggio, del tempo scandito dalle feste religiose e dai riti profani, come sono proprio i falò, c’è la realtà della vita rurale in tempo di guerra, c’è la fame, che crea una distinzione netta tra i ricchi, i signori, le madame e i poveri.

Lo stesso Anguilla, durante la sua visita, si accorge che i tempi sono cambiati. La povertà è aumentata, anche quelli che conosceva sono caduti in disgrazia e sono morti nelle situazioni più tristi. Sullo sfondo del racconto troviamo la guerra partigiana, combattuta da gruppi antifascisti dall’armistizio dell’Italia nel 1943 fino alla liberazione da parte degli alleati.

Scopo di Pavese è proprio quello di esprimere una visione tragica della vita, con simboli e riflessioni personali. Infatti, tra le vittime della guerra tra partigiani e fascisti, quella che assume il significato più simbolico e forte e unisce metaforicamente il passato ad un presente tragico è quella di Santina, la bella figlia del sor Matteo. Uccisa dai partigiani in quanto spia fascista.

Santina, con la sua morte, chiude per sempre il passato di bellezza di Anguilla. E con il letto del suo rogo toglie anche il valore salvifico dei falò nelle campagne.

“Cosa resta allora della Luna i falò a un giovane lettore di oggi, per il quale le storie della vita contadina o della Resistenza sono rimandi lontani? Sicuramente l’ansia identitaria, la ricerca di comunità al di là della famiglia, il riconoscersi in un territorio, che è oggi uno dei bisogni più urgenti. Del personaggio di Anguilla resta forse la volontà di affermarsi, di conoscere il mondo e fare fortuna, magari senza imprese eroiche, ma parlando e confrontandosi con gli altri […].”

Finiamo con questa citazione di Enrico Mattioda, anche se ci sarebbe ancora moltissimo da dire, collegamenti da fare; ma forse tra quello che sapete già e qualche collegamento nel testo, forse, almeno il sei lo portiamo a casa. :’)

Oriana D'Apote

Oriana D'Apote classe ’93 un pendolo che oscilla tra la Puglia e l’Abruzzo. La mia prima natura è quella di ascoltatrice di storie, con l'animo inquieto sempre alla ricerca di qualcosa, il dettaglio, la poesia. Sogno di acquistare centinaia di fiabe illustrate, leggo storie crude. Vivo come il protagonista di un noir a colori dove alla fine prenderò il cattivo, risolverò il caso.

Lascia un commento