Il viaggio della fenice – Intervista a Sabrina Prioli

Il mese scorso vi abbiamo presentato Il viaggio della fenice di Sabrina Prioli, un libro che racconta parte della sua vita sempre in movimento fino alla terribile esperienza in Sudan del Sud. I temi trattati nel testo ci hanno spinto a chiedere un’intervista all’autrice.

Sabrina si è mostrata da subito disponibile e dopo uno scambio di messaggi decidiamo di incontrarci su Zoom. Dopo averle rinnovato i miei complimenti per il coraggio dimostrato nello scrivere questo libro, decido, ricollegandomi alle prime pagine che riportano i commenti sgradevoli dal web, di chiederle:

Sabrina, mi spiegheresti la figura dell’aid worker, o meglio come si arriva a questa figura professionale?

La figura dell’aid worker in Italia non è ben considerata, nel senso che viene descritta come un volontariato, anch’io nonostante fossi una professionista sono stata descritta come una volontaria. Per diventare aid worker c’è uno studio dietro. Io, per esempio, sono specializzata in pianificazione, monitoraggio e valutazione di progetto, ho studiato sociologia, ho fatto studi di statistica, di metodologia e un master in cooperazione internazionale.

Prima del Sudan del Sud avevi mai pensato che con questo lavoro ti saresti potuta ritrovare in una situazione critica, che c’era questo pericolo?

È ovvio che accettando di lavorare in contesti difficili sei pronto a realtà estreme. La passione per questo lavoro ti spinge a superare ogni barriera, arrivi a muoverti poi come un pilota di formula uno che non percepisce il vero pericolo. Però è anche vero che, per andare a lavorare in questi contesti, si seguono corsi di management del rischio, si adottano misure di sicurezza e prevenzioni specifiche. Purtroppo c’è sempre il rischio che queste misure di sicurezza manchino dell’effettiva applicazione. In Sudan del Sud, dove accadde l’incidente nel 2016, sono stati commessi errori madornali da parte degli enti preposti alla sicurezza: per primo da parte delle organizzazioni delle Nazioni Unite, che non hanno fatto nulla per proteggere i civili e noi aid workers.

Quando andavo in Colombia, anche temendo le guerriglie, io mi sentivo protetta da ciò che stavo facendo perché sentivo che ero lì per aiutare e cooperare con le persone, sentivo su di me uno scudo. Noi ci sentiamo protetti da questo scudo, dalle misure di sicurezza e dalle accortezze che dobbiamo avere.

Il cambiamento e la trasformazione viene da parte dei beneficiari stessi. Sono le donne, gli uomini, i bambini e i giovani che fanno la differenza, è la loro voglia di cambiamento. I progetti sono possibili perché è la gente a volerlo. È questa la forza più grande, sono loro.

E questo scudo, che si è incrinato in Sudan nel Sud, l’hai ricostruito. Ti senti ancora protetta dal tuo lavoro?

Si, ho riacquistato fiducia in me stessa. Ho sofferto di stress post traumatico. Avevo paura di tutto e tutti, qualsiasi rumore si trasformava in un colpo di arma da fuoco, uno sguardo strano era una minaccia su di me. Ne sono uscita dopo un lungo viaggio interno e anche attraverso un percorso terapeutico EMDR e attraverso il life coaching. Adesso sono anche io una life coach che lavora con il metodo Co-Active, ho ampliato la mia carriera professionale e sono veramente orgogliosa del cammino fatto.

Quindi attualmente sei una life coach, mi spiegheresti meglio questa figura?

Il life coach è un “allenatore di vita”. Nel life coaching non si usa il termine aiutare perché il coach è una persona che accompagna il coachee (il cliente) nel cammino della sua trasformazione. Inoltre il life coaching può essere associato alla terapia, come nel mio caso.

Il lifecoach co-active parte dal presupposto che le persone sono piene di risorse, sono creative e complete. Seguo delle tecniche per accompagnare il cliente, niente è improvvisato. Per diventare un professionista life coach bisogna fare un percorso professionale lungo.

Pensi che saresti arrivata al lifecoaching senza passare per la tua esperienza in Sudan del Sud?

Non credo, ero presa dal mio lavoro di consulente di pianificazione, monitoraggio e valutazione di progetto. È stato un momento brutto anche nella mia carriera professionale, mi sono ritrovata a dover ricominciare da capo.

Sono rinata dalle mie ceneri come la fenice, per questo ho scelto questo titolo. Mi hanno detto che è un titolo dolce per un libro amaro ma per me è un contrasto: la fenice, per rinascere, soffre. Io mi sono sentita rinascere, non mi aspettavo l’evoluzione nel coaching ma ne sono felice perché accompagno altre persone verso le loro trasformazioni.

Questo è un libro che dà voce alle vittime di violenza di ogni genere. Per tutti quelli che non hanno potuto parlare io ho trovato la forza di farlo nonostante le minacce.

Parlando di donne che non hanno voce, perché secondo te nessuno degli uomini presenti quella sera al compound ha voluto testimoniare?

Questo è qualcosa che mi stimola ancora tanta rabbia e sofferenza. Non ho mai capito perché, l’ho visto come un atto di codardia, erano loro i primi a doverci appoggiare, i primi con il coraggio di farsi avanti e non mandarmi da sola davanti ai miei aguzzini. Non ho mai ricevuto risposta al mio appello, neanche un ringraziamento.

C’è stata poca collaborazione tra le organizzazioni presenti sul territorio?

Non c’è stata collaborazione tra le organizzazioni, tra le ambasciate. Ho lavorato fino al giorno prima dello scoppio della guerra civile, sono stata all’ambasciata americana ma nessuno parlava delle avvisaglie, quando io stessa potevo vederle.

Erano aumentati i posti di blocco, i soldati, c’era tensione ma nessuno ne parlava. Tant’è vero che le Nazioni Unite hanno investigato formalmente: c’è un report formale con un’ammissione di colpa da parte loro. Ammissione che hanno fatto in maniera furtiva perché hanno voluto nascondere i loro errori; lì non è stato solo un non proteggere noi aid worker, non sono stati protetti i civili. È stata una cosa grave, c’erano donne, bambini che bussavano alla loro porta e venivano rimandati indietro in pasto alle belve.

Ci possono essere tante misure di sicurezza ma, se non sono messe in atto dalle agenzie preposte, da solo non conti nulla. Come noi in quel momento, abbandonati. Siamo rimasti asserragliati nel compound dal 8 luglio fino al giorno 11. Nel frattempo non hanno fatto nulla per evacuarci.

L’11 siamo stati aggrediti, il compound assaltato. Sono arrivati a liberarci lo stesso giorno dell’attacco e lo hanno fatto male. Hanno liberato le persone in momenti differenti, lasciando inoltre me e un’altra collega lì nel compound per tutta la notte dell’11 fino alla mattina inoltrata del 12 luglio. Perché? Bisognava liberare tutti. Per questa mancanza io e un’altra collega abbiamo subito altre violenze rispetto a quelle già subite. Siamo rimaste lì esposte ad altre violenze che potevano essere evitate, lì, per tutta la notte, nonostante ci fosse già il cessate il fuoco.

Perché non è venuto nessuno? I colpevoli sono i soldati ma anche chi ci ha abbandonato. Per questo caos abbiamo subito violenza, siamo state abbandonate. Questo abbandono ha creato e ampliato il blocco emotivo-psicologico… ho dovuto ingoiare il mio stesso vomito, senza poter gridare o piangere.

Ho raccontato la verità che fa scomodo ascoltare, ma bisogna ascoltare, prendere coscienza. È quello che ho fatto al processo, ho voluto che aprissero gli occhi, che li sbarrassero che ascoltassero quello che hanno fatto a me e che fanno a tantissime altre donne.

C’è ancora qualcosa che vorresti che chiedessero e non è stato mai chiesto?

Questa domanda mi piace, non ci ho mai pensato! Chiedermi se ho perdonato i soldati? Nessuno lo ha chiesto fino ad ora, potresti farlo tu.

Lo faccio subito, Sabrina, hai perdonato i soldati?

Non perdono fino a quando non c’è giustizia, che ancora chiedo al governo del Sudan del Sud; quattromila dollari come riparazione sono un’umiliazione. Non perdono fino a che non sono riconosciuta come vittima per un crimine orribile.

La famiglia del giornalista ucciso ha ricevuto 50 vacche. Noi vittime 4.000 dollari (che per altro non pagarono mai). Senza distinzione tra chi fosse stato violentato e chi non avesse subito nessuna violenza. Il compound ha invece ricevuto 2.5 milioni di dollari. Ho perso il lavoro. Sono stata violentata; è mancata la fiducia in me stessa in preda ai dolori perché mi hanno spaccato la schiena… per la ripresa fisica ho combattuto. Ho fatto terapie psicologiche e fisiche pagando di persona.

Chi ha pagato per questo? Nessuno. Cosa valiamo veramente? Nulla. Pagare il compound 2,5 milioni di dollari è un’offesa per noi vittime. Come si deve sentire una vittima stuprata, percossa? È un’offesa. Uno schifo. Io non perdono fino alla giusta riparazione.

Sabrina chiude con questa frase: «Spero che leggano questo libro, non per esigenze letterarie ma per il messaggio.» Anche noi ce lo auguriamo, perché crediamo nel potere che ha la parola scritta nel veicolare un così forte atto di forza.

Oriana D'Apote

Oriana D'Apote classe ’93 un pendolo che oscilla tra la Puglia e l’Abruzzo. La mia prima natura è quella di ascoltatrice di storie, con l'animo inquieto sempre alla ricerca di qualcosa, il dettaglio, la poesia. Sogno di acquistare centinaia di fiabe illustrate, leggo storie crude. Vivo come il protagonista di un noir a colori dove alla fine prenderò il cattivo, risolverò il caso.

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