La solitudine del mare – Intervista a Alessandro Febo

La solitudine del mare di Alessandro Febo è un libro davvero particolare soprattutto perché è una saga familiare, cosa che in Italia si sta perdendo sempre di più. Rimangono pochi esempi come Giulia Ciarapica, finalista al premio Flaiano; l’unico che va ancora forte è Lessico famigliare della Ginzburg, ma lì si aggiungono motivi storici e documentari (oltre la bellezza del romanzo).

Questo libro riesce a portare la saga familiare in un luogo dove non è stato ambientato mai qualcosa del genere. Perché hai scelto Pescara?

La verità è questa, ho preso semplicemente dalla mia vita.  Non c’è nulla di totalmente inventato, sicuramente è mischiato, ma è tutto vero; nel senso che sono molto legato alle tradizioni familiari che continuano ad essere presenti nella mia vita. Sono sempre state presenti soprattutto da piccolo, quindi ho attinto da lì, idem per quanto riguarda la marineria, i pescatori e il mare.

Sono tutti aneddoti e personaggi realmente veri ed esistenti. È ambientato a Pescara perché sono nato qua e non mi sembrava giusto far diventare il personaggio siciliano o pugliese. Io ho provato a descriverlo nella mia città perché così è stato.

Quindi una persona potrebbe fare anche un tour per cercare questi luoghi che narri.

Certo, è fatto volutamente perché vorrei si potesse scoprire e riscoprire la bellezza della nostra zona e della nostra città, perché ci sono luoghi che anche gli stessi pescaresi non conoscono. Basta spostarsi di poco dal porto: un esempio può essere la marina sud. Ma anche il resto d’Abruzzo. Certe scene le ho vissute a Acquabella (San Vito Chietino), o l’eremo dannunziano.

Ci sono dei posti che, dopo la lettura, dopo averli immaginati, non si possono non visitare. Del resto anche questo è uno degli obiettivi di uno scrittore o di un regista.

Appunto, tu sei anche regista e attore. Immagino tu voglia portare La solitudine del mare su pellicola.

Sì, sicuramente diventerà un film. Il libro è stato scritto già con quest’intento. “Tutto ciò che si scrive può essere filmato”, diceva Kubrik. Vorrei che questa bellezza possa arrivare agli occhi di tutti.

Si vede molto dai dialoghi serrati e pronti per la scena. Quanto è importante per te il dialogo rispetto alle descrizioni? Grazie alle parole che dicono, i tuoi personaggi diventano immediatamente riconoscibili con l’ambiente e diventano loro stessi una descrizione.

Ognuno di noi associa un luogo a delle persone e viceversa, e ho cercato di fondere questo nella scrittura, unendo posti e personaggi, sentimenti e oggetti, drammatico e commedia, …

Il libro presenta due schieramenti ben distinti, tra le umili famiglie di pescatori e la delinquenza locale. Eppure è tutto molto diverso rispetto alle produzioni contemporanee.

Io credo nell’eroe buono. Questi criminali rappresentano il sistema corrotto della società e della vita. Oggi il protagonista sguazza nel male, ha preso le parti dell’antagonista, ma io volevo far arrivare Antonio Cortes, il personaggio buono e positivo (nonostante sia arrogante e superbo), alla lotta col malvagio. Dovremmo emulare questi eroi positivi, che non mollano mai, a differenza di prodotti ben più noti. I sistemi corrotti sono ovunque, l’importante è trovare la forza di combatterli.

A metà romanzo c’è una gravidanza indesiderata a seguito di uno stupro, che è un vero punto di svolta. A livello simbolico mi sembra che rientri nello stesso ambito.

Esattamente. Tutti i personaggi lottano contro qualcosa. Mi metto nei panni di chi ha vissuto situazioni difficili, complicate, assurdamente violente. Si trovano a un bivio nella propria vita. Qui si scelgono le vie più difficili, ma che possono racchiudere una speranza per il futuro. Anche cadendo, lo fanno andando avanti. È necessario cercare la luce, ad ogni costo.

Ora vorrei cambiare (di poco) il discorso e orientarmi verso l’altro lato della tua carriera. Sei attore, regista e sceneggiatore. Ora è in fase di postproduzione L’ultimo round, ce ne puoi parlare?

Sì, dopo tanti anni di gavetta la produzione di Ermelinda Maturo mi ha dato la possibilità di fare la regia di questo prodotto dove sono anche sceneggiatore e attore protagonista. L’ultimo round si aggiunge a quello che possiamo chiamare il mio ciclo dei vinti (ride). Il protagonista è il pugile italoargentino Alessandro Silvestri; ha perso i genitori, vive col fratello. Da giovane è stato un talento della boxe ma nella sua fase crescente si monta la testa e si lascia andare, frequentando ambienti malsani, con alcool, droghe e donne poco raccomandabili.

La fortuna è che troverà Umberto, ex campione, la cui figlia lavora in comunità con ragazzi tossicodipendenti. Il protagonista quindi, tra alti e bassi, con forti scontri, nonostante tutto, troverà un degno finale. Tutti i protagonisti si giocheranno il loro personalissimo ultimo round. C’è un enorme mazzo di chiavi e ognuno cercherà la chiave per aprire la propria porta.

Ho visto anche le tue storie dove ti stavi allenando da pugile professionista. Molti scrittori hanno bisogno di tranquillità, serenità. Com’è stato unire questi due mondi così diversi? Scrivevi ugualmente?

Scrivevo, scrivevo, scrivevo. Ho trovato un mio equilibrio spingendo su di una forza interiore legata al pugilato. Ho praticato tanti sport, anche a livello agonistico, quindi ci sono in parte abituato. Dovevo fare l’attore protagonista per un film francese dove sarei stato un pugile, ma il progetto è andato in standby. Ho continuato a crederci anche grazie ai miei grandi allenatori. Il primo è stato Alessandro Di Meco, grandissimo campione abruzzese della boxe italiana ed europea, che mi ha portato presso la Pugilistica Pescara. A lui si sono aggiunti Gianmaria Petriccioli, Giovanni Piccoli, e poi Costantino Padovano, Franco Verzulli, … tutti nomi dello sport cosiddetto “pulito”, che mi hanno allenato come se dovessi vincere dei veri incontri, dei titoli.

In America la produzione ti paga tutto, io ho fatto da solo. Non ho mollato. Il primo giorno di riprese ho avuto una lesione al ginocchio sinistro, ma non ho ceduto per tutto il mese di riprese. Si vede che non sono nato con la camicia? (ride) Dovremmo prendere più esempio dall’America. Per fare ruoli del genere bisogna comprendere l’intero ambiente del personaggio. Con sacrificio, studio e pratica si arriva al compimento giusto per fare questo mestiere.

Torniamo alla Solitudine del mare. Chi vedresti – oltre te – nel cast ideale?

Beh, per zio Vincenzo vedrei perfettamente Pannofino. Nonno Romeo lo identifico con Leo Gullotta o Michele Placido, diversissimi ma ugualmente adatti alla parte. Il personaggio di Don Carmine, pur non volendo cadere nei cliché, calza molto su Tony Sperandeo. Le combinazioni sono parecchie. Per zio Vincenzo sarebbe interessante anche un attore come Luca Ward. L’idea è quella di avere un cast internazionale, per cui stiamo già prendendo diversi contatti, ma non posso dire molto altro.

Come si dice in questi casi, merda merda merda!

Aniello Di Maio

Aniello di Maio è nato l’ultima volta a Castellammare di Stabia (NA), ma si definisce pescarese per evitare lo spirito di competizione. Allevato da un diplomatico presso l’ambasciata spagnola, ha acquistato un veloce eloquio, così veloce che è meglio leggerlo che ascoltarlo. Ha amato così tanto studiare Lettere moderne che ha trascorso almeno il doppio degli anni fuori corso, un po’per l’ansia dilagante, un po’perché non riesce ad essere serio a lungo. Neanche in quattro righe di biografia.

Questo articolo ha un commento

  1. Italo

    Lo scrittore, nonché regista, attore e produttore, seppur in erba, impersonifica fedelmente la sua posizione nel mondo. Uno spirito libero che vaga per l’intero territorio nazionale ed oltre, ma che non discerne dal rimanere ben saldo alle proprie radici abruzzesi. Consiglio vivamente di dare un’occhiata ai suoi molteplici lavori, a partire dalla Solitudine del mare.

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