Insulti al pubblico – Peter Handke

Sorprendere gli spettatori è sempre più difficile, quasi impossibile, grazie a Peter Handke e il suo Insulti al pubblico. Nel 1966 esce un testo che frantuma la quarta parete in un modo così netto che non ha eguali: quattro parlanti senza parti prestabilite, uno spazio non adibito allo spettacolo, restano solo le parole. È l’autore a volere l’importanza centrale della parola, mettendo in secondo piano tutto ciò che ruota intorno.

Le azioni muoiono di fronte alla forza delle pièce vocali, perché sul palcoscenico non c’è spazio per l’imitazione della realtà; la naturalezza dev’essere la chiave per entrare nei pensieri espressi. Unica variabile fondamentale è la presenza di un pubblico, o meglio di un interlocutore: a qualcuno bisogna rivolgersi, no?

“Le pièces vocali sono prologhi, ormai resisi autonomi, delle vecchie pièces teatrali. Esse non intendono rivoluzionare, bensì rendere attenti.“

Il giovane autore – appena 24 anni – è un esordiente in tutti i campi: il 1966 è anche l’anno del primo romanzo, I calabroni; purtroppo il mestiere di scrittore è complesso, e l’editore consiglia a Peter di buttarsi sul teatro: almeno lì circolano un po’di soldi. È divertente come oggi sia impossibile fare un ragionamento del genere. Resta il fatto che Handke è famoso principalmente per il suo teatro, nonostante una radiosa carriera da romanziere e le tante dichiarazioni di avversione al teatro come esperienza. Forse è per questo che scardinerà parecchie regole.

Sempre nel 1966 Handke è a Princeton al convegno del Gruppo 47. L’ultimo giorno, di fronte ai più noti scrittori e professori della Germania occidentale, accusa i letterati tedeschi di scarsa creatività e uso “terribilmente convenzionale” della lingua in tutti i suoi aspetti. Un’ottima presentazione per Insulti al pubblico, a teatro pochi mesi dopo.

La prima opera, nel volume edito da Quodlibet, è appunto Insulti al pubblico. Mancano le indicazioni di scena, in compenso ci sono indicazioni per gli attori. Queste regole sono oltremodo stranianti, soprattutto se consideriamo l’epoca: anziché fornire aiuti pratici per recitare il testo, troviamo un mood da ricreare; ci sono canzoni da ascoltare, film da vedere, rumori da sentire, tanti Beatles. Anche gestualità da interiorizzare, se è ciò che possiamo dire delle scimmie che allo zoo imitano gli uomini.

Gli attori dovranno poi disattendere ogni possibile risvolto che porterebbe lo spettatore a sentirsi a proprio agio come accadrebbe a un normale spettacolo. La parte relativa agli insulti al pubblico è sul finale, peraltro per poco tempo. Lo spettatore diventa consapevole di sé nello spazio teatrale, entra in un non-luogo dove uno squarcio nella fantasia dell’autore trasforma il pubblico in personaggio in balìa degli altri (i quattro attori). Distanze azzerate, pareti demolite, scintille. Nei primi anni di rappresentazioni c’erano anche persone che dal pubblico intervenivano, fino a salire sul palco. L’avanguardia arriva a un livello raramente raggiunto in periodi successivi.

“Questa pièce è un prologo. Non è un prologo di un’altra pièce, ma il prologo a ciò che avete fatto, a ciò che fate e a ciò che farete. Voi siete il tema. È il prologo ai vostri usi e costumi. È il prologo alle vostre azioni. È il prologo alla vostra inattività. È il prologo al vostro giacere, al vostro stare seduti, al vostro stare in piedi, al vostro camminare. È il prologo ai giochi e alla serietà della vita. È anche il prologo a tutti gli spettacoli che vedrete in futuro. È anche il prologo a tutti gli altri prologhi. Questa pièce è teatro universale.“

Il paragrafo in questione evidenzia l’ambizione altissima di Peter Handke, espressa anche nelle altre opere. Profezia, ad esempio, è un elenco di tautologie: parole definite con le stesse parole (“le mosche moriranno come le mosche”, “i cani in calore andranno annusando come cani in calore”, “le statue saranno immobili come statue”). Con vent’anni di anticipo su Massimo Catalano, l’autore irride la lingua e i suoi sedimenti, le frasi ormai tipizzate, la scontatezza.

Autodiffamazione esprime invece le possibilità della lingua unendo i frammenti a mano a mano; costruisce poi una vita in tutte le ripetizioni e le variabili possibili, un gioco linguistico degno di Andrea Moro, che chiude sempre nel meta-teatrale. Il fatto che ci siano due attori, un uomo e una donna, a recitare il testo simultaneamente, rende lo straniamento ancor più potente.

Il minore vuole essere il tutore è forse il testo che conferma maggiormente la voglia di stupire da parte del giovane drammaturgo. L’intero copione è muto, una lunghissima descrizione di una storia da seguire nel movimento. Scrivere per il muto, pur avendo attori in scena. Lo studio del linguaggio è totale, infatti il linguaggio del corpo entra nella ricerca di Handke prepotentemente. C’è da dire che, per ora, mi sembra meglio da vedere che da leggere.

La provocazione maggiore è però Quodlibet, qui tradotto dal Laboratorio Traduzione Sapienza a cura di Camilla Miglio. Qualche secolo fa, il Quodlibet era una composizione musicale di stampo umoristico. La tradizione si unisce al gioco linguistico: frasi quotidiane, parole, segmenti che si uniscono a termini sessuali o del campo semantico di guerra e nazismo. La prima rappresentazione, a Basilea, fu tosta da digerire. Oggi, addirittura, sarebbe impensabile.

Non resta che godere, almeno a casa, di Insulti al pubblico. Non li meritiamo, ma ne avremmo bisogno.

Aniello Di Maio

Aniello di Maio è nato l’ultima volta a Castellammare di Stabia (NA), ma si definisce pescarese per evitare lo spirito di competizione. Allevato da un diplomatico presso l’ambasciata spagnola, ha acquistato un veloce eloquio, così veloce che è meglio leggerlo che ascoltarlo. Ha amato così tanto studiare Lettere moderne che ha trascorso almeno il doppio degli anni fuori corso, un po’per l’ansia dilagante, un po’perché non riesce ad essere serio a lungo. Neanche in quattro righe di biografia.

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