Parlare de Il sentiero dei nidi di ragno è difficile non solo perché è un classico amatissimo e già esaminato da gente molto più autorevole di me, ma perché tra i commentatori c’è lo stesso Italo Calvino. Del resto abbiamo già provato la sua eccellenza nella saggistica, figurarsi quando parla di sé. È il suo primo libro, ed è un esordio destinato a rimanere nella storia letteraria italiana.
Nella letteratura sulla Resistenza è il primo esempio che viene in mente, perché i contenuti sono forti e ricchi di valenze multiple, eppure è una storia alla portata di tutti. In questo ci aiuta l’età del protagonista: Pin è un bambino, ed è cresciuto troppo in fretta per colpa della guerra e la miseria. Nonostante questo, pensa comunque rispecchiando la sua età.
Il mondo che Calvino descrive deriva dall’esperienza assurda della guerra, dove però l’autore coglie la “spavalda allegria” di chi, finita la situazione totalmente negativa, può ricominciare da zero. Pin è proprio così: spavaldo e di buon umore. Va in osteria, ride con gli adulti, fa battute e canta canzoni in cambio di sigarette. Purtroppo le prese in giro sono molte per via dell’occupazione della sorella.
Entrambi orfani, con il moto bellico tutt’intorno, avrebbero faticato a sopravvivere se la sorella non avesse iniziato a concedersi. Lo fa coi tedeschi, perché in effetti era la scelta più conveniente. Il romanzo però è ambientato nel periodo della Resistenza, quindi la Nera di Carrugio Lungo (così è nota la prostituta nel circondario) diventa una doppia vergogna.
Notiamo la tenera età di Pin quando non si capacita della voglia di stare nel letto con la Nera. È ancora ben lontano dal sapere che, in tempo di guerra, anche quella donna così vicina ai tedeschi può esser trincea (non fatemi diventare volgare).
Per legare con gli uomini adulti, il protagonista prende spesso pieghe triviali. Sembra assurdo, ma Il sentiero dei nidi di ragno viene criticato sui commenti di Amazon (ah! Non sapevo facesse anche critica!) proprio per queste coloriture. Quel genio di Pavese avrà immaginato un futuro distopico dove i lettori non avrebbero compreso il romanzo per intero, soffermandosi solo sulle parole. Come se Calvino scrivesse senza tridimensionalità. Urge una citazione:
Quello schietto e geloso abbandono all’incalzare di eventi e catastrofi, di spettacoli e di visi noti che faranno la smorfia o il sorriso previsti, che saranno maschere cosi fedeli alla loro natura da colpire di perenne stupore, quella schietta e complicata ingenuità dei poemi, può ritrovarsi ai giorni nostri solamente dentro un cuore di fanciullo. Non importa se il fanciullo di Calvino dice «puttana», bercia canzoni da bordello e potrebbe magari ammazzare qualcuno.
Non ha legge né madre, c’è la guerra, la gente si ammazza e non è colpa di Pin tutto questo. […] Malgrado il carrugio, malgrado il sentore di chiasso e di feccia, la giornata di Pin ha una grande purezza; scontrosa sboccata maligna come trascorre, è tutta fresca, baldanzosa di scoperte, di gesta, di onore, proprio come la giornata di un Astolfo e di un Jim Hawkins.
Pin, per compiacere gli adulti, ruba una pistola P38 al tedesco più assiduo in casa sua. In osteria, però, nota che non può fidarsi di nessuno; i grandi sono inaffidabili, dànno poca importanza alle parole, mentono. Per questo motivo decide di portare l’arma in un luogo che nessuno conosce, lì dove stanno i nidi di ragno.
Il furto porta Pin in prigione, ed è così che conoscerà la violenza degli uomini. Grazie a Lupo Rosso riuscirà a evadere e iniziare un percorso decisamente particolare a stretto contatto coi partigiani (e qualche fascista).
Altra critica al romanzo arriva per via del nono capitolo, che espone le riflessioni del commissario Kim. È un personaggio che nel racconto arriva tardi, ma la sua presenza è fondamentale. Calvino mette nella voce di Kim le osservazioni e le discussioni che faceva col capo partigiano Ivar Oddone, conosciuto durante la Resistenza; giustamente, erano gli unici due intellettuali del gruppo composto prevalentemente da contadini e operai.
Le riflessioni teoriche sono concentrate in questo capitolo, che si discosta dal resto del romanzo per svariati motivi. L’azione è ridotta all’osso, innanzitutto. La staticità influisce anche sul parlato: mentre nel resto della storia ci sono dialoghi molto veloci, qui leggiamo dei veri e propri monologhi. I lettori dell’epoca trovavano fastidiosa questa disomogeneità stilistica, ma non conoscevano ancora il postmoderno (di cui Calvino è un esempio importante, imponente, ma era ancora agli inizi). Addirittura consigliavano di tagliare l’intera sezione per migliorarne la lettura. Pazzi.
[…] Quel bambino del distaccamento del Dritto, come si chiama? Pin? Con quello struggimento di rabbia nel viso lentigginoso, anche quando ride… Dicono sia fratello di una prostituta. Perché combatte? Non sa che combatte per non essere più fratello di una prostituta. E quei quattro cognati «terroni» combattono per non essere più dei «terroni», poveri emigrati, guardati come estranei. E quel carabiniere combatte per non sentirsi più carabiniere, sbirro alle costole dei suoi simili. Poi Cugino, il gigantesco, buono e spietato Cugino… dicono che vuole vendicarsi d’una donna che l’ha tradito… Tutti abbiamo una ferita segreta per riscattare la quale combattiamo.
Ogni persona ha i suoi motivi per combattere, ed è anche per questo che ognuno è convinto di stare nel giusto. La dimensione storica porta poi gli individui a parteggiare per l’uno o l’altro schieramento, e quindi certe battaglie personali verranno perse perché è andata male al proprio allineamento. Questo è il frutto dell’esperimento sociale di Kim, che unisce i peggiori partigiani: inaffidabili e non devoti alla causa. Non si sorprende quando viene a sapere che qualcuno decide di passare dall’altro lato della barricata. Nessuno insegue ideali, hanno solo bisogno di dare un senso alla realtà che perde forma ogni giorno di più.
Il monologo di Kim presagisce cosa accadrà quando tutti torneranno alla vita pacifica, e Calvino scrive una delle frasi che dovrebbero leggere in ogni scuola per insegnare al meglio gli errori della scorsa generazione:
[…] Ci sarà invece chi continuerà col suo furore anonimo, ritornato individualista, e perciò sterile: cadrà nella delinquenza, la grande macchina dai furori perduti, dimenticherà che la storia gli ha camminato al fianco, un giorno, ha respirato attraverso i suoi denti serrati. Gli ex fascisti diranno: i partigiani! Ve lo dicevo io! Io l’ho capito subito! E non avranno capito niente, né prima, né dopo.
Nonostante i continui scontri con la realtà, Il sentiero dei nidi di ragno è un libro che poggia su di una dimensione fiabesca ragguardevole. Già Pavese trattò l’argomento, comprendendo prima di Calvino che il percorso narrativo dell’autore sarebbe passato per quelle strade.
Il finale, sul quale non farò spoiler, è zavattiniano, permeato da quella dolcezza ingenua e buona che caratterizza lo sceneggiatore di Miracolo a Milano e Umberto D. Così come Zavattini è emblematico per il cinema neorealista, allo stesso modo Il sentiero dei nidi di ragno diventa il primo libro da ricordare nella letteratura neorealista.