La letteratura giapponese fa così.
Un neofita non la capisce, scambia la semplicità con la mancanza di contenuti, la sottigliezza con la banalità. Sembra che venga dato solo il “la” alle cose, e che poi restino sospese nell’aria, quasi abbandonate, trascurate, non approfondite. Viene preso per freddo, privo di sentimento e di poesia quello che invece per i giapponesi è assolutamente normale.
La letteratura giapponese fa così, e sarebbe bene saperlo dall’inizio.
Spesso viene detto che, per imparare a conoscere una cultura, un buon metodo sia quello di leggere i testi che ha prodotto. Il cosiddetto canone (dal greco κανών -όνος (canon -onos), canna, ad indicare il regolo usato dagli artigiani, il metro) è nato infatti in epoca coloniale: un insieme di testi scelti dalla madrepatria e inviati nelle colonie affinché esse avessero il metro di giudizio della cultura che li aveva conquistati e sottomessi. In realtà è l’esatto opposto. Quando si decide di studiare la Letteratura ad un certo livello, anzitutto viene insegnato che, prima ancora di potersi avvicinare ai testi, è necessario immergersi profondamente nella storia e nella cultura del paese da cui provengono. Solo dopo aver fatto questo gesto di comprensione verso l’altro ci si può avvicinare lentamente e in punta di piedi alla sua Letteratura, poiché essa è il suo contenitore primario.
Tutto ciò si fa ancora più vero nel caso del Giappone, dove la riservatezza che ne contraddistingue il carattere principale viene spesso confusa -in particolare modo dagli occidentali- con l’ermetismo.
Basta pensare agli haiku, il componimento poetico giapponese per antonomasia, tre versi e diciassette more che sfuggono spesso alla nostra capacità di comprensione. Così brevi e fugaci che sembra essere più quello che non dicono rispetto a ciò che in realtà dicono. Sembra, appunto.
Per fare un paragone scientifico gli haiku, così come la maggior parte delle opere giapponesi, sono come il peso specifico, ovvero il rapporto fra il peso di un corpo e il suo volume, che quindi varia a seconda della sua massa e dello spazio che occupa.
Questa è la premessa all’analisi di Il ristorante dell’amore ritrovato di Ito Ogawa (edito in Italia da Neri Pozza, 2010), che più che una normale recensione vorrei potesse essere una guida alla lettura.
Il romanzo comincia con Ringo che, rientrando dopo il turno in un ristorante turco, trova la casa completamente vuota. Il suo fidanzato indiano l’ha lasciata e si è portato via tutto, persino le stoviglie che aveva comprato con i frutti del suo lavoro, persino i risparmi, i ricordi di tutta una vita insieme e anche qualcosa che non apparteneva a loro ma solo a lei. Restano un mazzo di chiavi buttate sul pavimento e poi solo il silenzio.
È emblematico leggere che, insieme a tutti i suoi averi, Ringo perde anche la voce. Da questo momento in poi non potrà più parlare, perché parlava tramite lui. Quell’uomo, il suo ormai ex fidanzato di cui non viene mai nemmeno menzionato il nome, era una presenza così preponderante nella vita della giovane protagonista che, perdendo lui, perde anche la possibilità di comunicare. Forse in quella vita insieme, costruita sui cocci di una fuga, vi era talmente poco il riflesso della sua personalità che, sparito lui, è sparito tutto. Quel “voi” era più lui che lei.
Ma qualcosa le è rimasto, un ricordo immacolato della nonna che tanto amava, di quella nonna grazie alla quale aveva trovato una nuova casa nella grande città, dopo essere scappata dal suo paese natale. Quella stessa nonna che le aveva insegnato a cucinare e alla cui morte era sopraggiunto lui che le aveva donato una nuova vita. È simbolico che sia proprio l’ultimo piatto preparato assieme alla nonna a darle la spinta per tornare indietro. Ringo, che non ha -di nuovo- più nulla, decide di fare ritorno al suo villaggio natale, dalla madre con cui ha sempre avuto un rapporto burrascoso, nella vita che aveva scelto di non vivere più.
Un altro dettaglio particolarmente significativo sulla protagonista sta nel suo nome. Le era stato sempre detto che “Ringo” provenisse da furin, adulterio, e che fosse quindi il simbolo che non era una figlia dell’amore ma nata da un tradimento, salvo poi fornirle altre etimologie più dolci. Ringo stessa non sa da cosa derivi il suo nome e, se si pensa a quanto sia importante la funzione del nome proprio, che dovrebbe essere l’immagine di chi lo porta, è facile intuire il disagio emotivo e identitario che ciò le crea.
La prima cosa che fa, una volta arrivata, è un gesto fortemente allegorico: si taglia i capelli. Si libera della lunga chioma che il fidanzato tanto amava, prima con un coltello e poi radendosi completamente.
La perdita della voce è comunemente associata alla perdita di sé stessi e della propria identità e Ringo sceglie di compiere una depersonificazione ancora maggiore spogliandosi anche di ciò che la rende, almeno all’apparenza, una donna.
Non ha più nulla, non è più nulla. Ha perso la voce e la possibilità di comunicare i suoi pensieri e le sue idee sul mondo, non ha mai avuto un nome che la rappresentasse e che la rendesse reale, ha scelto di modificare la sua apparenza tanto da non avere più caratteristiche che la inscrivano in qualsiasi gruppo. Non è più una persona. La parola persona deriva etimologicamente dal greco πρός ὄψις (pros opsis), davanti agli occhi, e sta ad indicare proprio l’altro, colui che si trova davanti al mio sguardo. La relazione sociale è il fondamento dell’identità personale e Ringo, essendo stata privata di un segno di riconoscimento, che sia la voce, il nome o i capelli, non è più nulla davanti agli occhi.
Ora che non è più niente, può ritrovarsi.
Da questo nuovo battesimo inizia la sua rinascita. Ringo apre da sola “Il Lumachino”, il ristorante che aveva sempre desiderato assieme a lui, ritrova il rapporto con la madre e scopre finalmente l’origine del suo nome. Ciò non basta però a ridarle la voce, ci sarà bisogno di un’altra grande perdita. Dopo aver -simbolicamente e non- spezzato il legame con il futuro (l’ex-fidanzato), deve essere reciso anche il filo che la lega al passato affinché la protagonista possa trovare il suo presente.
“Il Lumachino” era diventato famoso perché si diceva che aiutasse coloro che vi andavano a mangiare a ritrovare l’amore. In realtà, il ristorante le fa ritrovare sì l’amore, ma quello per sé stessa. Così, la donna senza voce, senza nome e senza capelli, finalmente capirà di avere qualcosa da dire e saprà come affermarlo.
«Ci sono cose che non possono assolutamente tornare. Ma che al tempo stesso, pur non potendo tornare, restano eternamente presenti».
Un altro episodio rivelatore della potenza del romanzo è la scena dell’uccisione del maiale. Ogawa non risparmia niente ai lettori, nemmeno quello su cui un autore occidentale soprassederebbe, e narra con dovizia di particolari la morte, proprio per mano di Ringo, dell’animale. Le motivazioni che hanno spinto l’autrice a non omettere nulla sono facilmente spiegabili se si pensa al modo che hanno i giapponesi di veicolare le emozioni. Non capita di rado infatti che, all’interno del romanzo, vengano descritte scene particolarmente cruente o concreti riferimenti sessuali, come anche nella letteratura europea o americana d’altronde.
Tuttavia in Il ristorante dell’amore ritrovato, ma in generale in tutta la letteratura giapponese, la differenza sta nel cosa si sceglie di rivelare. È semplicemente una riservatezza diversa da quella occidentale, tanto diversa che non viene compresa. Il fatto che Ringo non riesca a dire alla madre che le vuole bene ma non abbia problemi a sgozzare un maiale è sintomatico di cosa i giapponesi considerino realmente intimo, nel senso di privato, e cosa no. I sentimenti, il dolore, l’amore o un semplice bacio fra fidanzati sono o totalmente estremizzati, il più delle volte con la violenza, oppure talmente intimi da essere inaccessibili allo sguardo altrui. Per questo motivo preferiscono tacerli. Non è l’uccisione del maiale in sé ad avere valore, bensì le emozioni che la causano, le quali sono meravigliosamente espresse nella violenza della scena. È un altro tipo di sensibilità che sceglie di mostrare ma non raccontare.
Avrei potuto porre l’attenzione su altri particolari della trama, sulla cucina che fa da padrona o sul multiculturalismo di cui si fa veicolo. Tuttavia ho scelto di mostrare ciò che non viene espressamente detto ma che bisogna cercare. È un’attitudine tutta occidentale quella delle eccessive spiegazioni, il voler tutto e subito e possibilmente chiaro e lampante. Il problema è che l’attitudine occidentale non funziona nella letteratura giapponese, bisogna sforzarsi di comprenderli prima di comprenderla.
La commercializzazione della letteratura ha fatto sì che la voce di ogni popolo potesse essere portata agli altri e che l’autore avesse il compito di rendere comprensibile ciò che per differenze culturali non lo è. Questo richiede anche un considerevole sforzo da parte del lettore, soprattutto con i romanzi giapponesi che sono tutti così: sembrano solamente, ma alla fine si rivelano essere.