Probabilmente funziono al contrario, perché mi rendo conto che Il lenzuolo di Paolo Dal Canto non è uno di quei romanzi per tutti; per me, invece, fa parte della zona di comfort. Sangue, dannazione, violenza – e qui rischio di sembrare un sociopatico – sono quegli elementi che subito riportano alla mente le prime letture di nascosto, quando prendevo i Diabolik e i Dylan Dog di mia madre dal fondo della libreria. Dal Canto va oltre, è l’evoluzione che mi serviva. Mentre in Sputi era presente anche una buona dose di sardonico umorismo – un evil Groucho in rima –, qui seguiamo una storia che intreccia violenza e religione (beh, non che mancassero collegamenti) in modo originale, coinvolgente e contemporaneo.
Il primo capitolo non fa sconti, né a noi, né alla protagonista. C’è una lunghissima sequenza di stupro, e il dolore, la rabbia e lo schifo sono tangibili. Ogni riga porta la soglia un po’più in là, quasi una sfida alla sopportazione, il personaggio subisce un oltraggio dopo l’altro e ci sentiamo inermi di fronte alla sofferenza. Alcool, urina, sangue e sperma sono un tremendo cocktail riverso sul corpo della donna e sul lenzuolo, insolito oggetto della narrazione che diventa magico anche in virtù delle tante cose passate. A te che stai leggendo: se deciderai di tentare magie con gli ingredienti all’inizio della scorsa frase, non farmelo sapere.
Cosa rimane? Una famiglia distrutta, vite spezzate e un lenzuolo che diventa una macabra sindone. Sacro e profano diventano un tutt’uno, non sono più complementari. La grande stoffa ormai indelebilmente macchiata è una coperta, una tana, un simbolo. È la bandiera che indica la rinascita di una strana coppia, un orfano e una suora. I santi partecipano, anche gli arcangeli, persino un Cristo con un perfido ghigno, proprio quello rappresentato da Federico Quiliconi nella copertina, sul riflesso della lama.
“Alla tele c’è un cartone giapponese, i personaggi hanno tutti gli occhi grandi, come quelli di Raffaele. Si capisce subito quali sono i buoni e quali i cattivi: i cattivi hanno sempre la bocca deformata in un ghigno crudele, un ghigno che le ricorda quello del crocifisso della chiesa di San Raffaele. La pizza è buonissima e Gesù è uno dei cattivi!”
Potremmo dire che il romanzo è ai limiti della blasfemia, ma siamo noi stessi a piazzare paletti. Paolo Dal Canto non ne ha e nelle acque extraterritoriali della letteratura nuotano gli autori liberi. Massimiliano Parente, Isabella Santacroce e tanti altri, tra cui appunto il Dal Canto, travolgono chi ha il coraggio di leggere al di fuori delle dolci onde che cullano il lettore medio.
La metafisica in Il lenzuolo si tocca con mano, è più reale del reale. Può turbare, ferire, ed è per questo che crediamo alla fantasia del romanzo. L’immersione è totale perché mancano gli imbellettamenti, ma non la bellezza. Sì, perché anche in un leone che dilania un corpo potremmo essere incapaci di voltarci, potremmo rimanere ad ammirare la natura che agisce e la tenacia dello spirito di sopravvivenza. Serafino Gubbio continuò a girare, nel bellissimo romanzo di Pirandello; per Il lenzuolo, secondo me, passerebbe da operatore a regista.