“Recensire” un capolavoro della letteratura è quasi impossibile, certi libri andrebbero solo letti e lasciati agire in santa pace. Tuttavia, con Il giovane Holden (1951, di J.D. Salinger) il discorso è un po’ diverso. Esso non è solo un classico, è uno dei quattro imprescindibili della letteratura americana; parliamo di quei romanzi che ogni angloamericanista che si voglia poter definire tale deve aver letto almeno una volta nella vita. Per inciso, gli altri tre sono Furore di John Steinbeck, Moby Dick di Herman Melville e Il Grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald. Eppure, ad una prima lettura, il senso di questa imprescindibilità resta oscuro, velato da una trama e un linguaggio talmente semplici da apparire quasi banali. Quasi, appunto.
La semplicità è così preponderante che l’edizione più famosa in Italia, quella del 2014 di Einaudi, ha la copertina totalmente bianca e non riporta nemmeno la sinossi o la biografia dell’autore.
Molti lo hanno letto durante le scuole superiori e in genere lo hanno trovato noioso, a volte addirittura sopravvalutato. Però, quella che può sembrare solo la semplice avventura di un ragazzino americano un po’ scapestrato e ribelle, come ne avevamo già visti – ad esempio con l’Huckleberry Finn di Mark Twain –, in realtà è una storia che tocca l’universale, parola di Harold Bloom.
L’Holden narratore ha diciassette anni e decide, come si legge nel famosissimo incipit, di raccontare ai lettori «la roba da matti che mi è capitata sotto Natale» l’anno prima, quando ne aveva sedici. Il protagonista lascia la scuola, da cui comunque era già stato espulso, e decide di vagabondare per New York prima di tornare a casa, se a casa tornerà davvero.
Questo suo atto però, a cui era stato spinto da una furibonda litigata con il compagno di stanza, non è altro che l’ennesima dimostrazione di quanto il ragazzo si senta incompreso; o meglio, di quanto il mondo attorno a lui gli risulti incomprensibile. È un problema di forma. Holden Caulfield, sarà banale ricordarlo, non è altro che una personificazione del disagio adolescenziale, come era nel 1946 (anno in cui il testo è ambientato) e come è rimasto nel ventunesimo secolo, e questo è uno dei principali motivi per cui il romanzo è un classico.
Il giovane Holden, ragazzo immaturo ma sensibile e intelligente, scappa per cercare la libertà. Odia tutti quelli che gli sono vicini, ipocriti che fanno cose ipocrite, salvo poi farsi muovere dalla pietà o dal dispiacere la maggior parte delle volte. Si sente solo, incompreso, depresso e, in un mondo dove tutti gli parlano, lui vorrebbe solo essere ascoltato. William Faulkner, nella sua analisi, ricorda che il dilemma di Holden è accettare una guida o un maestro di cui fidarsi.
Uno dei passi migliori del libro è l’incontro con il Professor Antolini, che cerca di aiutarlo a non “cadere in un baratro” consegnandogli un biglietto con una citazione del celebre psicanalista Wilhem Stekel:
«Ciò che contraddistingue l’uomo immaturo è che vuole morire nobilmente per una causa, mentre ciò che contraddistingue l’uomo maturo è che vuole vivere umilmente per essa».
Ad una lettura postuma, è questo ad essere il turning point della vicenda. Harold Bloom, nell’introduzione a Bloom’s Modern Critical Interpretations: J. D. Salinger’s The Catcher in the Rye, sostiene che Holden regredisca dalla ricerca della libertà alla ricerca della sopravvivenza. Ed è questo che lo salva.
Tuttavia, non è la figura dell’insegnante quella decisiva, bensì quella della sorellina minore, Phoebe. Per capirne l’importanza, è necessario fare un passo indietro e analizzare il titolo. La traduzione italiana, Il giovane Holden, banalizza l’originale The Catcher in the Rye, il quale invece riprende il motivo più importante dell’intero romanzo. L’insoddisfazione del protagonista si conclama nella sua mancanza di desideri. Quando, durante l’incontro con la sorellina, essa gli chiede se ci sia davvero qualcosa che gli piaccia e che vorrebbe fare, Holden risponde citando una canzone, a sua volta ripresa da una poesia: «Se ti prende al volo qualcuno mentre cammini in un campo di segale» (to catch, prendere e rye, segale). Holden dice che la sua ambizione è acchiappare al volo i bambini se cadono mentre giocano in un campo di segale; essere quindi il The Catcher in the Rye.
Il desiderio del protagonista di salvare i bambini è da imputarsi all’improvvisa scomparsa del fratello Allie, morto di leucemia tre anni prima. Il punto di svolta si ha quindi quando, grazie ad un’altra bambina –Phoebe-, Holden comprende di non voler morire nobilmente per una causa, ma vivere umilmente per essa, per salvare i bambini, in questo caso la sua sorellina. Il protagonista sceglie dunque la sopravvivenza, dimostrando di essere infine maturato.
Tutto il romanzo è narrato in prima persona da Holden, che racconta questi giorni della sua vita a un generico “voi” e termina con l’emblematica frase: «Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, poi comincia a mancarvi chiunque». Quasi a dimostrazione del fatto che, in un mondo dove tutti gli parlano, lui ha trovato qualcuno disposto ad ascoltarlo. Noi.