Anna ha sette anni e ogni mattina prende lo scuolabus per andare alla scuola Giustiniana. Ha una sorella gemella, una madre affettuosa e un padre silenzioso ma amorevole. Anna ha dodici anni, la casa è sempre affollata da amici dei genitori, tutti indifferentemente zii o zie. Ha sedici anni e inizia a guardare i ragazzi con interesse, almeno fino alla prima, terribile delusione, che le lascia addosso una diffusa sensazione di sporcizia. Anna ha diciott’anni e trova il suo primo lavoro come commessa. Diventa donna, inizia a lavorare come ballerina e poi come cantante. Conosce finalmente un ragazzo che la accetta e la accoglie nel profondo, se ne innamora, insieme intraprendono un viaggio alla scoperta di sé stessi.
In un Paese diverso dal nostro, la storia sarebbe tutta qui. Un romanzo di formazione su una bambina, poi ragazza e infine donna che si interroga su chi vuole essere e impara ad amarsi nonostante tutto. Ma Anna è nera. E in un Paese come l’Italia, in cui i figli degli immigrati mantengono la cittadinanza dei loro genitori perché la cittadinanza è “solo un fatto di sangue”, anche se sono nati in Italia e parlano il dialetto romano, questo fa tutta la differenza.
Il corpo nero di Anna Maria Gehnyei è così ingombrante allo sguardo di chiunque si rapporti con lei da condizionare inevitabilmente ogni fase della sua vita. Ha sette anni e i compagni di scuola non vogliono giocare con lei. Ha dodici anni e la professoressa (Edda, come la figlia di Mussolini) afferma, come fosse cosa ovvia, che “si sa che gli immigrati sono persone che non sanno fare nulla. Ed è logico quindi che anche i figli degli immigrati non sappiano fare nulla”. Ha sedici anni e il suo primo ragazzo la costringe a fare qualcosa che lei proprio non vorrebbe fare, giudicandola meno umana, meno degna di rispetto perché “ne*ra”. Il corpo nero sembra precederla, imporsi prima di lei all’attenzione, come un qualcosa di esotico e stravagante nel migliore dei casi, oggetto di scherno e odio nei peggiori.
Gehnyei, nota con il nome d’arte di Karima 2G, che è danzatrice, cantante e producer, scrive de Il corpo nero senza particolari pretese di letterarietà, con la fresca disinvoltura di chi ha davvero qualcosa da raccontare: il padre, il primo Kpelle ad arrivare il Europa, che comunica quasi esclusivamente con le canzoni di Bob Marley e Lucky Dube, canzoni che parlano dell’Africa, di cui lui però non parla mai perché gli manca troppo; la madre, la principessa dei diamanti, che non può tornare alla sua terra perché adesso è governata da una regina cattiva di nome guerra; la terza sorella, che prima di arrivare in Italia non aveva mai indossato un paio di scarpe; i commenti degli uomini, tanti, troppi, che vogliono possederla, che la giudicano una prostituta solo perché nera, che si sentono inadeguati e quindi la odiano. E poi la Liberia, di cui Anna sente il richiamo, un incessante suono di tamburi che le ricorda le sue origini.
Il corpo nero racconta in modo inedito le “seconde generazioni”, qui più orientate alla riscoperta delle proprie radici che a una totale integrazione, che sembra, almeno nella prospettiva dell’adolescente Anna, impossibile. La condanna a sentirsi spaccati in due anche quando si riesce a ottenere la cittadinanza (per l’autrice il primo giorno di normalità), ma che può anche essere la propria forza, perché quando si cresce si scopre che non si deve appartenere necessariamente a una cosa sola, si può essere tutto ciò che si vuole. Il corpo nero ci ricorda anche quanto il razzismo sia ancora profondamente radicato in Italia, e lo ricorda soprattutto a chi, come me, vive nella propria bolla in cui una società multiculturale sembra l’unica possibilità.