Il castello di Otranto – Horace Walpole

Il castello di Otranto di Horace Walpole è noto per la sua presenza in tutte le prefazioni a romanzi gotici di ogni risma. Sì, perché stiamo parlando del testo che per primo ha tentato la creazione di un universo del genere ma in una forma che non fosse quella del poema.

Oltre 250 anni dopo siamo ancora qui a parlarne, nel bene e nel male. Del resto l’età non giova ai film horror di tre lustri fa, figuriamoci quando si parla di superare un paio di secoli.

La prima edizione è del 1764. In Italia circolava il saggio di successo Dei delitti e delle pene, in Francia iniziava a circolare in forma anonima il Dizionario filosofico di Voltaire. Anche l’Inghilterra, quindi, aveva il suo “libro dell’anno”.

Il volume diventa in poco tempo diffusissimo, probabilmente anche per merito della storia scritta nella prefazione: il testo pare sia stato tradotto dall’italiano da un esemplare del 1529 stampato a Napoli, ma derivanti da un manoscritto datato tra il 1095 e il 1243. Walpole usa uno pseudonimo per firmarsi da falso traduttore, William Marshal.

L’esotismo paga (quasi) sempre, e l’anno successivo esce subito la nuova edizione. Il successo mette in ottima disposizione Horace Walpole che decide di firmare il suo Il castello di Otranto.

“Affidò la propria opera al giudizio imparziale del pubblico, deciso a lasciarla morire nell’oscurità se disapprovata; e non intendeva riconoscere come propria un’opera a meno che giudici migliori di lui non decidessero che poteva farlo senza arrossire.”

Grave errore. Con la rottura dell’aura misteriosa del testo ritrovato si disfa anche il successo; Accade però per poco, a dispetto di quel che scrive oggi la critica. Già nel 1781 venne adattato per il teatro da Robert Jephson. E stiamo parlando solo degli anni vicini. Voglio dire, dopo tutto questo tempo ne stiamo ancora parlando!

Siamo sinceri: Il castello di Otranto oggi ha principalmente un valore documentario. Parliamo di un libro che è invecchiato così poco nello stile (è scorrevole e adorabile in più punti, soprattutto dove interviene l’ironia dell’autore) quanto invece ha perso in contenuti ed effetti del genere. Basterà leggere l’opera senza aspettarsi momenti orrorifici tipici di questa forma, perché in pratica non era ancora nata.

È interessante una delle chiavi di lettura inserite nella prima prefazione: il romanzo segue una divisione in cinque capitoli, e altro non sono che i cinque atti teatrali, «è un peccato che egli non abbia applicato il suo talento a quello per cui era evidentemente portato, il teatro».

Nonostante questo, ho trovato un solo adattamento del testo ad opera di Jan Švankmajer (andate a cercarlo e guardate qualsiasi sua opera, una carriera d’oro).

In definitiva, si tratta di un centinaio di pagine interessantissime, ma da leggerle tenendo ben presente il contesto. Trovando la giusta dimensione, lo divorerete.

Aniello Di Maio

Aniello di Maio è nato l’ultima volta a Castellammare di Stabia (NA), ma si definisce pescarese per evitare lo spirito di competizione. Allevato da un diplomatico presso l’ambasciata spagnola, ha acquistato un veloce eloquio, così veloce che è meglio leggerlo che ascoltarlo. Ha amato così tanto studiare Lettere moderne che ha trascorso almeno il doppio degli anni fuori corso, un po’per l’ansia dilagante, un po’perché non riesce ad essere serio a lungo. Neanche in quattro righe di biografia.

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