Con quest’articolo finisce il percorso su Dante Alighieri che abbiamo intrapreso in questo 2021 così significativo. Lo facciamo unendo le ultime opere perché la miglior edizione raccoglie Epistole, Ecloge e Questio de situ et forma aque et terre in un unico volume.
Il libro è dell’editrice Antenore, croce e delizia dei tanti stolti che hanno frequentato le facoltà umanistiche italiane, ed è a cura di Manlio Pastore Stocchi. Esatto, proprio quello della Rivista di studi danteschi, ma rimaniamo su questa pubblicazione speciale.
Senza Boccaccio avremmo perso la maggior parte di questi testi. Dante è oggi osannato e preservato, ma all’epoca la cultura medievale stava perdendo terreno e avanzava la cultura umanistica. Molti libri di questa stagione verranno rapidamente dimenticati, anche perché non tutti avevano un fan così sfegatato come l’autore del Decamerone.
Ma partiamo.
EPISTOLE
Epistola I
Dante Alighieri scrive al cardinale Niccolò da Prato, che tenta la pacificazione della Toscana. Non ci riuscirà. Dante prende carta e penna a nome degli esiliati di parte bianca, dichiarando di essere disposti addirittura a sottomettersi. In realtà lo stesso poeta ci crede poco, infatti è tutto molto generico e la lettera serve solo a prendere tempo. L’epistola è della primavera del 1304, a luglio ci sarà la Battaglia della Lastra. Probabilmente è una missiva di risposta, dove il cardinale sarà stato molto duro; l’Alighieri quindi abbassa la testa e si scusa tantissimo: evento più che raro.
“Perciò alla clementissima pietà vostra rivolgiamo con voce filiale e con tutto l’affetto una supplica, affinché vogliate ristorare con il riposo della tranquillità e della pace quella Firenze da lungo tempo esagitata, e, come un padre amoroso, abbiate raccomandati noi e tutto quanto è legittimamente in nostro potere, che sempre ne difendiamo il popolo; noi che, come non desistiamo mai dall’amare la patria, così intendiamo non oltrepassare mai i limiti segnati dai vostri precetti, bensì obbedire, tanto doverosamente quanto religiosamente, a qualsiasi vostro ordine.”
Il finale ricorda la lettera di Troisi e Benigni al Savonarola, ma a Dante mancava una spalla.
Epistola II
Questo è un biglietto di condoglianze ai conti Oberto e Guido da Romena, ché gli è morto lo zio Alessandro. Nulla di particolare, ma se l’autore è Dante Alighieri tutto fa brodo. Tesse le lodi del defunto e si scusa perché l’esilio non permette deroghe. Nel frattempo, in Inferno XXX ne dice peste e corna perché falsario.
Epistola III
È una lettera di accompagnamento al sonetto Io sono stato con Amore insieme, una risposta a una tenzone con Cino da Pistoia. Probabilmente non bastavano quattordici versi per esprimere il tutto. In realtà bastavano eccome, per dire che l’amore fa un po’ come gli pare: ci si innamora, disinnamora, reinnamora. La missiva è più un pretesto per divertirsi con le citazioni, Ovidio su tutti. Nell’ultimo paragrafo mostra la sua anima da book influencer e consiglia Rimedi contro i casi avversi, ma l’attribuzione a Seneca è falsa. Il commesso della Ubik avrà riso in faccia al povero Cino da Pistoia.
Epistola IV
La lettera è per il marchese Moroello Malaspina, a cui manda la poesia Amor, da che convien pur ch’io mi doglia. Per Boccaccio, a lui è dedicato il Purgatorio. In effetti è molto più ossequioso, rispetto all’epistola per Cino. In pratica racconta di aver visto una donna di cui s’è subito infatuato a prima vista, e spiega per bene la poesia. Un ritorno a un qualsiasi capitolo della Vita Nova, ma in forma diversa.
Epistola V
Dante Alighieri si rivolge “A tutti e ai singoli Re d’Italia e ai Senatori dell’Urbe santa, nonché ai Duchi, Marchesi, Conti, e ai Popoli”, a cui augura pace. Il messaggio è pieno delle convenzioni epistolari, e serve a mostrare che è ben felice dei cambiamenti futuri ipotetici. Ricordiamo che Arrigo VII di Lussemburgo stava per scendere in Italia per l’incoronazione romana, e anche Papa Clemente V esortò i cristiani a riconoscerlo e onorarlo. Il sommo poeta si unisce alla linea, parlando di tempi propizi, Titani apportatori di pace, Cesari e Augusti combattenti contro le iniquità e altre lecchinaggini varie. Puoi essere pure il più grande poeta dello Stato, ma senza denari non si cantano messe e bisogna lavorare per accaparrarsi il benestare di chi può prendere il potere.
Epistola VI
Qui ritroviamo i toni del Dante che abbiamo conosciuto: uno a cui gira il cazzo, ma che sa dirlo benissimo. Nell’intestazione divide bene le due parti, e leggiamo “Dante Alighieri fiorentino ed esule senza colpa” (l’eroe senza macchia) da un lato e “agli scelleratissimi Fiorentini in città” (i cattivi) dall’altro.
La lettera è un’invettiva contro i fiorentini che vanno contro il volere di Dio. Già, perché il Sommo dice che la venuta di Arrigo è un segno divino anche annunciato più volte dalle Scritture. Poi parla male dei fiorentini anche per la loro cupidigia, che li porta verso le maggiori nefandezze. Manda anatemi violenti contro prole e proprietà dei suoi ex concittadini, del resto Dante è così: se non siete con me, meritate di morire atrocemente. All’Inferno e non. Arrigo, divo e vittorioso, diventa una figura cristologica; affronta le difficoltà spontaneamente e si fa carico delle sofferenze altrui. La storia sarà però avversa al poeta fiorentino.
Epistola VII
Qui scrive direttamente all’Imperatore Arrigo VII, e l’unica parte importante della lettera è il destinatario. Alle superiori la nominavano come fondamentale, un tassello irrinunciabile tra le sue missive, e invece è solo Dante che vorrebbe mettere le presse al comandante. Arrigo rimane più tempo del previsto in Lombardia, e l’Alighieri preme per una discesa in Toscana il prima possibile. Uno già ha tanti problemi coi comuni padani ribelli e ti arriva una lettera piena di riferimenti biblici, complicata e, in certi passi, anche un po’ malaugurante. Poi uno pensa che Arrigo è maleducato se non risponde…
Epistole VIII, IX, X
Per entrare in certe grazie, da sempre, bisogna oliare certi ingranaggi. Dante Alighieri lo sa bene, e scrive questo gruppo di epistole alla moglie di Arrigo da parte di Gherardesca, moglie del conte Guido Guidi di Battifolle. Sono lettere di devozione, di espressa sudditanza, o meglio dire di lecchinaggio. Un detto napoletano recita: “Quanno si’ martiello vatt’, quanno si’ incudine statt’”, e qui Dante sa bene di essere incudine ma spera di diventare presto martello. Non accadrà.
Epistola XI
Ecco il Dante che ricordavamo! Rancoroso e violento nelle parole dedicate ai cardinali italiani, colpevoli di non fare nulla per il ritorno del papato da Avignone! Nel testo si definisce “un’ultima tra le pecorelle dei pascoli di Cristo, ma si esprime come un animale feroce pronto a dilaniare il nemico. Per attaccare usa però le parole, e spesso sono citazioni bibliche che cozzano con i tanti comportamenti dei prelati dell’epoca. Aggiunge però che non offende nessuno, cerca solamente di smuovere le coscienze per ritrovare il lume della ragione.
Del resto la scomunica pesava assai, all’epoca, e la nomina di esule e scomunicato poteva essere un cattivo biglietto da visita.
Epistola XII
L’epistola all’amico fiorentino è la mia preferita tra i carteggi di Dante Alighieri. L’amico aveva scritto al Sommo riguardo l’assoluzione degli esiliati in cambio di una pena pecuniaria. Dante però non accetta, perché la sua innocenza manifesta verrebbe macchiata dall’onta del doversi scusare senza aver fatto nulla. Il poeta mantiene salvi onore e fama, anche a costo di non tornare più a Firenze.
Epistola XIII
Cangrande della Scala riceve la più lunga delle lettere dantesche, e forse non lo è abbastanza. Parte con una lunga sviolinata, che si confà giustamente a chi ospitò Dante offrendo vitto e alloggio per diverso tempo. Aggiungo che potete ammirare Cangrande nell’articolo dedicato al De monarchia, non ringraziatemi. All’interno della lode alla magnificenza dello scaligero, Dante riconosce un grande vincolo di amicizia che vorrebbe ricambiare “in misura corrispondente […] e adeguata ai benefici più di una volta conferiti”, e il dono più prezioso è il Paradiso. La terza cantica, la più elevata, è dedicata a Cangrande, ed è allegata a quest’epistola.
Passa poi a un grande classico: la differenza tra senso letterale e allegorico, che trovate nell’articolo sul De vulgari eloquentia, ma Dante ne parla anche nel Convivio. In ultimo tenta una spiegazione del poema, ma da un lato risulta troppo colta (tantissimi riferimenti classici, dall’etimologia di commedia e tragedia fino a Orazio e Aristotele), dall’altro è frettoloso e lacunoso perché il condottiero aspettava la terza parte della Commedia da quando Dante abitava ancora a Verona. Sostanzialmente si ferma alla descrizione del prologo, ma sappiamo quanto il poeta sappia dilungarsi nello spiegare le proprie parole, fin dalla Vita nova.
Egloge
Le Ecloghe sono componimenti bucolici in forma dialogica, e il mondo classico ha parecchi esempi illustri come Virgilio. Tra 1319 e 1320 Giovanni del Virgilio, insegnante a Bologna scrive a Dante e i due si scambiano un paio di ecloghe a testa. La cosa sorprendente è che Giovanni del Virgilio è un ventenne che scrive con estrema sicurezza a un poeta già mitico in quelle zone. L’Alighieri sembra quasi stimolato dall’ammiratore che scrive in esametri latini con modi e argomenti raffinati. Questa è l’unica testimonianza di poesia latina dantesca.
Nella prima Ecloga Giovanni del Virgilio sfida Dante a scrivere, dopo tanta poesia in volgare, un componimento in latino per conquistare i letterati dell’epoca e ricevere quindi l’incoronazione poetica. Spoiler: lui non l’avrà, ma qualche tempo dopo toccherà a Petrarca.
Dante risponde con un componimento dal sapore virgiliano, dove Titiro (che rappresenta Dante) e Mopso (Giovanni del Virgilio) discutono del valore della poesia, dove la Commedia in volgare è comunque degna. Quando scrive in latino, Dante è meno stizzito.
Nelle altre due Giovanni del Virgilio insiste, Dante nicchia.
Questio de acqua et terra
Il titolo completo è Questio de situ et forma aque et terre, ma non possiamo esserne sicuri perché la testimonianza più antica è del 1508 ed ha un nome lunghissimo che commenta più o meno il contenuto del testo. Ve lo lascio comunque, poi sarete voi stessi a dimenticarlo: Quaestio aurea ac perutilis edita per Dantem Alagherium poetam Florentinum clarissimum de natura duorum elementorum aquae et terrae diserentem. Comodo comodo. Questo testimone a stampa pare venga direttamente da un autografo dantesco, ma ogni tanto si aggiunge qualcuno nello smentire. Noi non possiamo saperne nulla, tracce non ce ne sono, e il testo è abbastanza malconcio. In ogni edizione troverete tante lamentele da parte dei filologi, ma il volume non ne ha colpa.
L’opera è erudita, e cerca di unire il sapere scientifico con le Scritture. Ai tempi si forzavano i dati dell’esperienza in modo ingegnoso per di non contraddire i testi sacri. Nonostante questo, c’è ancora chi difende a spada tratta il Medioevo, come se un pensiero del genere fosse sensato. E pensate che queste sono le basi!
Tralasciando le mie questioni con la religione e le mode temporanee per un periodo storico così dominato da essa, il testo è una raccolta di sillogismi per dire che nulla è dato al caso, e Dio ha fatto tutto in modo perfetto. Chi non lo nota, nel caso, non ha abbastanza fede.