Desiderio – Giorgio Montefoschi : recensione

La vita dovrebbe essere imprevedibile, o almeno ci sentiamo rispondere questa frase ogni qual volta ci troviamo di fronte a qualcosa di non calcolato. Nella maggior parte dei casi, invece, è l’arte a rendere sorprendente qualsivoglia atto; lo svolgersi dell’esistenza rimane, per contro, appiattito dalla mancanza di intraprendenza.

Con questa chiave di lettura, Desiderio di Giorgio Montefoschi riesce a spiazzare: i protagonisti, come personaggi reali, rimangono ancorati al proprio percorso cercando di non uscire dal seminato. Matteo e Livia sono indissolubilmente legati da un’attrazione che non si smorza, tuttalpiù evolve; nel romanzo si seguono questi cambiamenti nell’arco di quarant’anni di trasporto emotivo (e non).

Ci si trova immersi fin da subito nella borghesia romana, tra le tante parole che si sprecano per assopire la noia citando le proprie letture o le pellicole viste al cinema, un po’per passione e un po’per codice d’appartenenza alla categoria sociale. In questo libro, però, questi riferimenti sono necessari alla scansione temporale: la prima parte è ambientata nel 1962 (allo Strega c’è Il maestro di Vigevano); la seconda si svolge nel 1987, anno de La famiglia di Scola, e l’ultima tranche vede Il pianista di Polanski al cinema, quindi 2002. Perfetto, per il premio Flaiano.

In Desiderio Giorgio Montefoschi decide di nascondere il narratore il più possibile, lasciando descrivere la storia agli attori delle singole situazioni. Il romanzo, infatti, è ricco di dialoghi serrati, dove è complessa e stratificata l’analisi. C’è la naturalezza delle frasi a metà, del non detto: quel focolare dove si scaldano le emozioni e i sentimenti, che possono raggiungere la temperatura giusta, ardere e sgocciolare, o addirittura ustionare. In certi casi c’è chi dimentica di ravvivare il fuoco, come accade a Matteo con la moglie. Sì, perché Matteo ha conosciuto Livia all’università, ma lei è poi partita all’improvviso e le cose sono andate avanti senza scossoni. Il protagonista ha evitato gli sbattimenti della carriera accademica in favore del lavoro da giornalista. Si è poi sposato con la sorella di un amico, rimanendo fedele anche ai propri giri. Una vita sonnecchiante.

Tutto è precario e sospeso, però, nelle relazioni delle storie narrate o pur solo sfiorate.
Il libro parte in sordina, entra pian piano, con delicatezza, tra le corde del lettore. È tenero, mentre il desiderio si insinua tra le parole. Strugge dolcemente, mentre si chiude il volume alla fine dell’ultima pagina.

Aniello Di Maio

Aniello di Maio è nato l’ultima volta a Castellammare di Stabia (NA), ma si definisce pescarese per evitare lo spirito di competizione. Allevato da un diplomatico presso l’ambasciata spagnola, ha acquistato un veloce eloquio, così veloce che è meglio leggerlo che ascoltarlo. Ha amato così tanto studiare Lettere moderne che ha trascorso almeno il doppio degli anni fuori corso, un po’per l’ansia dilagante, un po’perché non riesce ad essere serio a lungo. Neanche in quattro righe di biografia.

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