Convivio – Dante

Il Convivio di Dante soffre di una patologia scolastica sempre più diffusa: la semplificazione in una frase. Quest’opera “è un banchetto offerto dall’autore, dove cibarsi di Sapere”. Non è sbagliato, ma di certo è riduttivo.

Il Convivio è però più centrale di quel che si possa pensare nel dormiveglia sui banchi. È la prima opera iniziata dopo l’allontanamento da Firenze, scritta da un uomo costretto a star fuori dalla città per cui ha lavorato alacremente. Sì, Dante è stato sia martello che incudine, nel complesso mondo politico fiorentino, ed ha subìto l’onta dell’esilio proprio durante una missione d’ambasceria a Roma, dal Papa. Anche senza Commedia avremmo studiato le imprese dell’Alighieri, e la nutrita compagine di dantisti avrebbe comunque scritto delle parecchie tappe errabonde fuori dalla Toscana.

La datazione si assesta tra 1304 e 1307, e doveva comporsi di quindici trattatati. Ne scrive quattro, di cui uno introduttivo. Se proprio vogliamo trovare un difetto a Dante, questo è racchiuso nella discontinuità; è più forte di lui, all’improvviso sale l’euforia e abbandona l’opera in scrittura per dedicarsi alla nuova idea.

Dante voleva racchiudere nel Convivio tutto lo scibile necessario e usa il volgare per far sì che tutti possano partecipare ed elevarsi. Questo è un concetto compreso poi anche dal suo fan numero uno, Giovanni Boccaccio. La gran differenza sta nel fatto che il Sommo poeta decide di non citare le donne, ma di questo abbiamo già parlato con il De vulgari eloquentia.

Partiamo col dire che l’autore più citato è Aristotele, chiamato solamente “lo Filosofo” perché come dice Marcello Marchesi, “Basta la parola!”.

Già nell’incipit leggiamo che “Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia [Ndr. la “Metafisica”], tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere”. Capiamo da subito che sia il fiorentino che lo stagirita non erano bravi a predire il futuro, ma in effetti immaginare le prime serate televisive era fuori da ogni logica. Del resto anche Calvino, molto più vicino ai nostri tempi, aveva preso parecchi abbagli a riguardo.

Il primo trattato è una sorta di introduzione in tredici capitoli: ci sono le intenzioni dell’opera, anticipa la struttura e i contenuti, una difesa del volgare (che fa sempre bene) e qualche piazzata contro certe categorie, perché è in parte cifra stilistica dell’autore.

“La terza setta contro nostro volgare si fa per cupiditate di vanagloria. Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua. E sanza dubbio non è sanza loda d’ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale acquisto.”

Dante sembra qui schierarsi contro i fanatici dei telefilm in lingua originale, del “ma in inglese hanno suoni migliori, e poi sono più profondi” e tutte quelle cose lì. Ma l’unicità dell’Alighieri sta nel trattare come nemici anche quelli del “ma in Italia abbiamo il doppiaggio migliore del mondo” qualche frase dopo. Però non posso mica trascrivervi tutti i pezzi in cui si arrabbia con qualcuno, altrimenti dovrei battere tutta la sua produzione.

Il secondo trattato del Convivio porta Dante a qualcosa che abbiamo già visto nella Vita nova, ovvero poesia e commento. A scuola ci lamentavamo perché gli insegnanti volevano almeno una pagina di foglio protocollo, mentre la nostra Corona poetica usa quindici capitoli per una canzone di cinque stanze. Non potevamo competere. Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete è tra le più belle canzoni di Dante, e il congedo sarebbe quasi da incorniciare:

Canzone, io credo che saranno radi

Color che tua ragione intendan bene,

tanto la parli faticosa e forte.

Onde, se per ventura elli addivene

Che tu dinanzi da persone vada

Che non ti paian d’essa bene accorte,

allora ti priego che ti riconforte,

dicendo lor, diletta mia novella:

«Ponete mente almen com’io son bella!»

Nel commento c’è di nuovo la spiegazione dei sensi di lettura (letterale, allegorico, morale, anagogico), ma stavolta in volgare. Se cercavate questo, lo trovate nell’articolo sul De Vulgari eloquentia.

Apprendiamo poi che Dante, dopo la morte di Beatrice, ha cercato ovunque un modo per riprendersi. La soluzione a tutto è stata la filosofia, in particolare Boezio e Cicerone. Il terzo cielo del titolo è il cielo di Venere. Nel testo segue una spiegazione dettagliata di astronomia, poi di astrologia, infine di teologia. L’Alighieri prende qui appunti per un’opera futura, tipo avantesto. La sezione di approfondimento religioso è molto lunga, ma all’epoca la messa era in latino e le persone ascoltavano passivamente senza capire. Il Convivio offre finalmente un’infarinatura al popolo di qualcosa in cui credevano pur con diverse lacune. E non si potevano cercare i sub-ita.

Il terzo trattato si apre con Amor che ne la mente mi ragiona, elogio della donna salvifica. È Beatrice, ovviamente, ma anche la filosofia. Dice che infatti è così elevata che comunque è difficile trovare le parole giuste e la giusta disposizione di intelletto. Bella, per carità, ma il commento è davvero troppo pesante. E la parte cosmologica ha una deriva mistica così forte che nella Divina Commedia non è rimasto poi molto. Anzi, c’è proprio la canzone, intonata da Casella nel Purgatorio! Di certo non era questione di Siae, ma ne parleremo sicuramente nei prossimi mesi.

Col quarto trattato si raddoppia tutto, con trenta capitoli che commentano la sua lunga canzone Le dolci rime d’amor ch’i’solia. L’autore dichiara di voler abbandonare le dolci parole poetiche che hanno caratterizzato la sua piuma inchiostrata, in favore di temi morali. Fondamentalmente è un discorso contro la nobiltà di sangue in favore di quella d’animo, ma non potevamo aspettarci altro da un uomo che mancava degli alti natali che tanto piacevano al periodo. Non vi anticipo nulla sulla sezione relativa a impero e papato, perché tra non molto pubblicheremo anche un articolo sul De Monarchia, che tanto alle interrogazioni non lo chiedono mai ma può servire per fare bella figura.

Ci fermiamo, come Dante, al quarto trattato del Convivio. Insomma, se fosse un vero pasto, è come se il padrone di casa ci cacciasse dopo aver portato in tavola il primo primo (non è un errore di ripetizione, parliamo di quindici portate promesse). Rustico, sì, ma nobile d’animo.

Aniello Di Maio

Aniello di Maio è nato l’ultima volta a Castellammare di Stabia (NA), ma si definisce pescarese per evitare lo spirito di competizione. Allevato da un diplomatico presso l’ambasciata spagnola, ha acquistato un veloce eloquio, così veloce che è meglio leggerlo che ascoltarlo. Ha amato così tanto studiare Lettere moderne che ha trascorso almeno il doppio degli anni fuori corso, un po’per l’ansia dilagante, un po’perché non riesce ad essere serio a lungo. Neanche in quattro righe di biografia.

Lascia un commento