La scrittura di Roberto Cipollone è molto evocativa, infatti Come i balconi di città riesce a trasportare i lettori nell’Abruzzo più nascosto. Ovviamente non c’è solo l’Abruzzo: c’è Roma, un pezzo di Milano, persino Lione; ma certi richiami sono più forti di altri. Fa rumore un albero che cade senza che nessuno lo stia a sentire? Solo se urla “offréghete!”.
Ho lasciato Pescara da un paio d’anni, è tutto (o quasi) alle spalle. Odiavo quelle stradine di campagna che portano a paesi dal nome così contadino, per non parlare dei paesani che non rispettano le norme di civiltà come i limiti stradali o il tasso alcolico alla guida. La mia è stata una fuga. Eppure i racconti di Come i balconi di città mi hanno regalato quel sorriso nostalgico che mai avrei immaginato di fare nei confronti dell’entroterra.
La regione verde illustra – inventando la figura geniale del sottosegretario alle Faccende cromatiche – le difficoltà nel definire l’Abruzzo. E i colori proposti sono diversi, non faccio spoiler ma l’organizzazione del testo è importante e questo racconto è un’apertura perfetta.
Le nevi, le montagne, i pascoli.
Leggendo, possiamo sentirli nelle ossa. Sono ancora dell’idea che ho fatto bene a scappare, anche se avrei dovuto scegliere un posto col mare. Garantisco sulla bravura di Roberto Cipollone perché sembrava di stare tra vallate e monti. Provo una repulsione fisica per le alture, nel senso che sto fisicamente male: sento i brividi, divento bianco (più del solito!), mal di testa. Sopra una certa altezza sento le vertigini, anche se in pianura. Bianchina è una storia tenera e al contempo dolorosa, seguiamo gli eventi senza poter fare nulla. È un racconto storico, ambientato durante la fine della guerra, e tutto è sospeso fino al lieto fine. Un po’per la montagna, un po’perché la protagonista Lauretta ha spesso il fiato fermo per via degli eventi, sono stato male.
Ho riscoperto emozioni semplici come lo è la gente descritta nel volume. Da questo punto di vista c’è una filovia che collega Come i balconi di città a Monte uccellino, con la differenza che il primo caso non ha bisogno di una struttura saldamente ancorata al cattolicesimo.
Anche se il succo della storia segue evoluzioni diverse, l’incipit di La rivoluzione mi è sembrato un vestito perfetto da indossare:
Che poi io l’avevo sempre detto: quella vita di campagna, tutti sudati, zozzi… proprio non era per me. «Ma addò sì escito?», dicevano gli altri e c’avevano pure mezza ragione, ma non è che siamo tutti destinati ai posti che ci hanno fatto nascere. Cioè non è che siccome uno è venuto al mondo dove le case confinano con le stalle deve per forza sentirsi parte di quella cosa là.
Io non ci stavo bene, papà se ne doleva e mamma cantilenava «Addò è escito?», e Mario rispondeva che volevo fa’ la bella vita coi soldi loro. Ma era proprio da ingrati volere qualcosa di diverso?
Forse anche per questo i racconti che più hanno saputo rapirmi sono gli ultimi tre, con una letterarietà più vicina alla mia zona comfort – e distante dal terrigeno.
La raccolta di Roberto Cipollone è per tutti, dagli amanti del D’Annunzio novelliere fino ai lettori di Carver, tant’è variegata (ma sempre puntuale) la sua scrittura.
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