Breve trattato sul lecchino – Antimo Cesaro : recensione

Qualcuno partirà già con una certa negatività verso questo libro per via del titolo, Breve trattato sul lecchino. Riconosciamo tali personaggi ben presto, fin dall’asilo, se non da prima. E anche l’odio nei loro confronti si sviluppa quasi subito.

Antimo Cesaro, l’autore, insegna all’Università Luigi Vanvitelli ed è uomo politico; in entrambi i campi, probabilmente, avrà conosciuto esempi di alto profilo nell’arte di allecchinare. In questo ci sono parallelismi con Carlo M. Cipolla, storico che conobbe talmente tanti stupidi da poterne tracciare linee base da analizzare nelle Leggi fondamentali della stupidità umana. I due autori sono accomunati anche dalla seriosa simpatia che in parte cristallizza i testi nella saggistica, e dall’altro versante ne costruisce una parodia.

C’è da ammettere che è un’arte, perché se da un lato bisogna compiacere la persona che stiamo coltivando, dall’altro c’è la necessità di non essere viscidi. Oh, poi ci sarà sicuramente anche chi apprezzerà gli eccessi, ma in questo caso ci troveremmo di fronte a un essere grottesco, più simile a Bis di Robin Hood che a un essere umano. Per l’autore, in effetti, il lecchino somiglia a un animale composito, una sorta di chimera, e ognuno è a suo modo. L’unica caratteristica comune è la lingua, e viene sottolineato che si tratta di un muscolo volontario.

Sempre nel primo capitolo del Breve trattato sul lecchino c’è un bel rimando a Daniele Luttazzi. Il mestiere più antico del mondo lo conosciamo tutti, ma Robert Musil ipotizza che il primo lavoro sia stato proprio quello del lecchino. Tra le due mansioni c’è però una bella differenza: “ci sono cose che una prostituta non fa”. Trovate la battuta in Rai per una notte, cliccando QUI.

Storicamente troviamo il protagonista della trattazione già in tempi antichi, e possiamo annoverare Catullo tra i primi a parlare dell’homo lingens, nel suo caso impersonato da Vezio e notato nell’atto di lambere nates e lingere culum. L’oratore Larcio Licinio, di scarso livello, addirittura inventò la claque: un discreto gruppo di lecchini pagati per fare ciò che sanno fare meglio (non sono mie fantasie, ne parla Svetonio in questo libro QUI). Inutile dire che la pratica sia nota anche nel medioevo, ma nei fabliaux si tratta più del pratico atto sessuale.

L’adulazione, volontaria o involontaria, è presente in letteratura in tante dediche; addirittura c’è un capitolo dedicato in Lui sa perché – fenomenologia dei ringraziamenti letterari. È divertente notare, tra l’altro, che in certi casi si contraddicono i contenuti dei libri. Mi spiego meglio: nel Principe di Machiavelli c’è un’intera sezione contro i ruffiani e i lecchini perché non attendibili. Il testo è dedicato a Lorenzo de’ Medici nella speranza che possa riportarlo a Firenze.

Leggendo il capitolo sulla storia del lecchino, riconfermo poi il mio amore per l’Illuminismo. Parini celebra la figura ne Il giorno, e stessi trattamenti vengono da Alfieri e Goldoni. Perché alla fin fine a chi dà fastidio il lecchino? A chi non raggiunge gli obiettivi dello stesso. Ma vi rendete conto di quanto sia dura essere sempre pronti a questo duro lavoro? L’invidia è una brutta bestia, e a mio avviso è peggio dell’impegno.

Un esempio è Mario Rapisardi, poeta siciliano che si appioppò il nome di Vate Etneo. Sì, dovette autoelogiarsi, visto che non lo facevano gli altri. La sua invidia nei confronti di Giosuè Carducci, primo premio Nobel italiano, è estremamente diretta nella frase “adulatore servile di gonne real umil lecchino”. Attaccò persino Croce, solo perché andò in difesa del gran poeta dallo sguardo lelloarenesco. Scrivere un’ode per accaparrarsi la regina Margherita è decisamente un passo importante, ma nulla c’entra l’allecchinaggio; parleremo però in un altro articolo dell’amore di Carducci per le donne. Tante. Tutte (forse).

Il Breve trattato sul lecchino saprà farvi conoscere parecchi casi poco noti o impensabili, ma soprattutto vi farà capire che quando si viene baciati dalla fortuna non si dice dove, ma si sottende abbastanza.

Aniello Di Maio

Aniello di Maio è nato l’ultima volta a Castellammare di Stabia (NA), ma si definisce pescarese per evitare lo spirito di competizione. Allevato da un diplomatico presso l’ambasciata spagnola, ha acquistato un veloce eloquio, così veloce che è meglio leggerlo che ascoltarlo. Ha amato così tanto studiare Lettere moderne che ha trascorso almeno il doppio degli anni fuori corso, un po’per l’ansia dilagante, un po’perché non riesce ad essere serio a lungo. Neanche in quattro righe di biografia.

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