A volte capita, scorgendo la sinossi da qualche parte, di essere irresistibilmente attratti da una nuova uscita. A me è successo di rado ma questa volta, con Belladonna di Annalena McAfee (Einaudi, 2020), è stata attrazione fatale.
Inizialmente temevo di aver commesso un errore. Le prime pagine sono state un tormento: una sequela di termini scritti in linguaggio volutamente aulico e incomprensibile, come chi vuole dare sfoggio di sé ma alla fine risulta pateticamente ridicolo.
E, ad aggravare il tutto, la mancanza assoluta di una trama. O meglio, la trama c’era, ero io a non riuscire a vederla, probabilmente accecata dal destabilizzante punto di vista troppo vecchio e decadente per potermici immedesimare.
Belladonna è Eve, artista sessantenne, che percorre le strade di Londra in una notte di dicembre. Lei ha solo il presente, che usa per ancorarsi al passato in una febbrile ricerca di ricordi, mentre cammina verso un futuro che non ci è dato di sapere, ma verrà svelato solo alla fine.
Belladonna rievoca sprazzi di vita, vecchi amori, passioni e rancori, momenti felici, litigi, amiche, mariti e amanti; il tutto sullo sfondo underground di una Londra targata 2019.
Mentre Eve si perde nei suoi ricordi di donna: la vita da studentessa nell’accademia di belle arti, la giovinezza punk, il suo primo amore, lo spettro dell’HIV che ha brutalmente reciso la sua voglia di ribellione (non solo) sessuale, il matrimonio, la nascita della sua unica figlia, le vendette, i tradimenti e le liti con le sue due migliori nemiche, parallelamente scopriamo i suoi ricordi di artista. Perché, prima di tutto, Eve è un’artista. E non è un caso che McAfee abbia scelto proprio il nome di Eva per la protagonista. Anche lei, come la sua ben più famosa e antica omonima, coglie metaforicamente la mela della rivolta.
Man mano che scorrono i ricordi, insieme alla strade e alle fermate della metropolitana, scopriamo che Eve, la donna, aveva dovuto sacrificare una parte di quell’essere donna per diventare Eve l’artista. Giovane musa di un pittore famoso e turbolento, poi moglie e madre, si era chiusa entro i confini imposti dai canoni della società, come la sua più importante opera Florilegio Underground. Ma, proprio nel momento in cui ritrova la sua posizione di donna non più tenuta sotto scacco dal giogo sociale, vediamo rifiorire anche la sua vitalità artistica. È nel momento in cui incontra Luka, giovane discepolo adorante, che Eve riscopre l’ispirazione.
Sempre attraverso i suoi ricordi, la trama si fa via via più interessante e strutturata, “finalmente c’è” era il mio pensiero, mentre Eve dà vita al suo Florilegio tossico.
Lo stacco è troppo evidente per non essere notato. La giovane pittrice innamorata dei fiori, tanto da volerli consacrare a vita immortale, passa da una natura morta legata e relegata ad un pezzo della città (la mappa della metropolitana), alla descrizione della sua potenza, della sua violenza e della sua pericolosità.
In Florilegio tossico è dipinta anche la Belladonna, fiore che dà il titolo all’opera, e che incarna la natura umana di Eve. È lei infatti ad essere Atropa Belladonna, il fiore indaco più mortale, quello che reca il nome di Atropo, la Moira che recideva il filo delle vite umane filato dalle sue sorelle.
E qui arriva l’epifania, il turning point dell’intero romanzo. È qui che il lettore apre gli occhi e finalmente vede che la trama era stata sotto il suo naso per tutto il tempo, velata dalle ombre degli incontri, di litigi e delle ripicche, dei tradimenti, delle storie di amore e morte che sempre vengono cercate come sigillo all’intreccio.
Belladonna non parla di Eve, né di Luka, né di Wanda Wilson, di Kristof o di Florian Kiš. Belladonna parla dell’arte, del potere dell’arte e della vita dell’artista al suo servizio. Il libro, come l’imponente nuova opera di Eve, ha l’arduo compito di mostrare all’incauto spettatore la dolorosa verità sulla forza e sulla fragilità della vita.
Belladonna non ha come protagonista l’opera in sé, quanto la sua composizione. Richiamando “La filosofia della composizione” di Edgar Allan Poe, Annalena McAfee ci mostra la straordinaria combinazione fra vita e arte, nodo, groviglio e imbroglio, che non potrà mai essere scisso.
«Non è più l’arte che imita la vita», minuziose copie di bellissimi fiori dipinti con dettagliata precisione, «bensì la vita stessa», con tutte le sue sfaccettature e sfumature, incarnatasi concretamente nell’opera.
E alla fine, dopo tutto, la Belladonna compie la sua missione e fa il suo effetto e io, come al solito, mi ero sbagliata.