Aspettando che arrivi sera – Serenella Bettin : recensione

Aspettando che arrivi sera è un libro che apre a mille riflessioni, e fa parte di quei reportage giornalistici che aiutano a mettere seriamente in discussione la maggior parte delle nostre conoscenze. Su ogni argomento c’è la tendenza a parteggiare per una linea di pensiero o l’altra; in pochi decidono di entrare nel vivo per capire che la realtà è ben più complessa di un titolo sensazionalistico o di un minimale comunicato ANSA.

Quando si parla di immigrazione, in tanti deviano il discorso sul razzismo. È sacrosanto, anche perché i casi – purtroppo – non sono isolati. Questo però allontana gli occhi da un problema ancor più diffuso, ovvero lo sfruttamento dell’immigrazione.

Serenella Bettin è una perla rara, una giornalista che non ha paura di sporcarsi le mani verificando e approfondendo ogni possibile anfratto delle realtà che esamina.

Il testo è in forma diaristica, e seguiamo l’autrice nel suo lavoro: raccoglie testimonianze dirette, incrocia dati, esamina fonti e documenti, è sempre in movimento. Gli impedimenti sono tanti e spesso la risposta è sempre la stessa: la privacy. È la scusa immediata per bloccare giornalisti e cronisti appena sono a un passo da molti disvelamenti.

Scopriamo di giri loschi e poco chiari all’interno delle cooperative, dove le indagini sono sempre troppo lente. Nel frattempo si creano le condizioni per nascondere i misfatti più grossolani, ma restano testimonianze e intercettazioni.

Angherie, soprusi, minacce e ricatti. Il problema di cui parlavamo all’inizio, quindi, andrebbe certamente spostato. Bisognerebbe parlare allora dell’accoglienza e dell’integrazione. Eppure molti dei responsabili decidono di chiudere un occhio (o due!) su questioni fondamentali, dalla scarsità di cibo alla pulizia, dalla mancanza di corsi di alfabetizzazione alla mancata immissione nel mondo del lavoro.

Quando si citano però queste dannate problematiche, torna l’indice giudicante che taccia di razzismo l’interlocutore. In Aspettando che arrivi sera Serenella Bettin dimostra in tutti i modi che il dito punta verso fronti errati, come quando nei film c’è una volante che ferma il detective privato che corre in automobile mentre i delinquenti riescono a scappare bellamente. 

Nel sesto capitolo ci sono diverse pagine che descrivono nel dettaglio l’iter che deve sopportare un migrante prima di sapere quale sarà il suo destino. Anni in balia di commissioni e centri, un dedalo grottesco che ricorda il Lasciapassare A38 ideato da Goscinny e Uderzo.

Il caso di Conetta è al centro del reportage. Serenella Bettin riesce a trasmettere immagini come pochi suoi colleghi:

“Ero arrivata a Conetta con il fotografo Lorenzo Porcile. […] Ricordo quei cancelli che si aprivano e si chiudevano come a scandire il tempo che lì dentro sembrava essersi fermato. E ricordo quel tonfo secco, ignobile, freddo, sotto quel sole cocente. E ricordo anche quel filo spinato che vibrava ogni qualvolta il cancello si chiudesse. Così come ricordo gli occhi di quegli immigrati, dentro a quel recinto, dove a noi era proibito entrare. Appena arrivati, ci erano venuti incontro. Poi siccome lì davanti non potevamo stare, allora noi eravamo andati sul retro e lì i profughi avevano iniziato a sfogarsi. A gettarci addosso tutte le loro frustrazioni e mancanze della prima linea di accoglienza italiana, di quella bieca e corrotta accoglienza, abbracciata dal filo spinato.”

 Associavo la parola “indignato” ai cinquantenni su facebook. A loro capita per tantissime cose, spesso di poco conto. Leggendo le storie narrate dall’autrice, sono stato travolto da un senso di indignazione. Come lei stessa nel diciannovesimo capitolo, però, il giornalista deve fare proprio questo: denuncia, fa arrabbiare, indignare, riflettere. Dovrebbe far saltare il lettore dalla poltrona. Il lungo pezzo di cui sto parlando – che potrebbe essere un ottimo vademecum del perfetto giornalista –, termina con: “Non stancarti mai di trasmettere”. Missione riuscita.

Voglio tranquillizzarvi. Per fortuna c’è uno spiraglio positivo sul finale di Aspettando che arrivi sera. La storia di Osas porta a un sorriso (anche se amaro), ma potrete scoprirla direttamente dal libro che vi consiglio assolutamente.

Aniello Di Maio

Aniello di Maio è nato l’ultima volta a Castellammare di Stabia (NA), ma si definisce pescarese per evitare lo spirito di competizione. Allevato da un diplomatico presso l’ambasciata spagnola, ha acquistato un veloce eloquio, così veloce che è meglio leggerlo che ascoltarlo. Ha amato così tanto studiare Lettere moderne che ha trascorso almeno il doppio degli anni fuori corso, un po’per l’ansia dilagante, un po’perché non riesce ad essere serio a lungo. Neanche in quattro righe di biografia.

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